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sabato 13 gennaio 2018

L’inchiesta sulla proprietà del Milan


Nella quale emergono altri dubbi sulle attività e sul patrimonio di Yonghong Li, 
l'investitore cinese presidente del club dallo scorso aprile.

Nonostante abbia concluso più di sei mesi fa un lungo e intricato passaggio di proprietà, il Milan non può ancora dirsi in una situazione tranquilla, perché sta passando un periodo piuttosto complicato sotto diversi punti di vista. Intanto da quello sportivo: la squadra sembra avere bisogno di più tempo per ingranare e ottenere risultati in campionato e in Europa League dopo i grossi investimenti portati a termine in estate. E poi da quello economico, dato che la solidità finanziaria del gruppo cinese viene costantemente messa in discussione da osservatori e inchieste giornalistiche.

Ieri il New York Times ha pubblicato un articolo dei giornalisti Sui-Lee Wee, Ryan McMorrow e Tariq Panja che solleva nuovi dubbi sulle attività e sul patrimonio di Yonghong Li, l’investitore cinese che dallo scorso aprile è proprietario e presidente del Milan, e sul quale non si sa moltissimo.

L’articolo inizia facendo un breve riassunto della situazione economica del club, e fa riferimento all’aumento di capitale da 60 milioni di euro deliberato lo scorso maggio, la cui conclusione è prevista entro fine mese. Come riportato recentemente anche da Repubblica, l’aumento di capitale in questione è necessario per mantenere l’attuale assetto della proprietà, dato che al Milan non è concesso mantenere a lungo una situazione di patrimonio netto negativo, secondo gli accordi stretti con il fondo speculativo Elliott, con il quale il Milan ha un debito di 354 milioni di euro. Nella raccolta dei 60 milioni per l’aumento di capitale, quindi, Yonghong Li è tenuto a dimostrare di poter far fronte alle spese richieste, anche cercando nuovi investitori.

Ma i giornalisti del New York Times, indagando sulle attività in Cina del proprietario del Milan, hanno potuto visionare i registri ufficiali delle attività cinesi, dove hanno notato che le miniere di fosforo di Fuquan, nella provincia di Guizhou, indicate come una delle principali fonti redditizie di Yonghong Li, non sarebbero intestate a lui. Li ha sempre sostenuto di esserne il proprietario, ma stando ai registri ufficiali la proprietà è riconducibile alla compagnia d’investimenti Guangdong Lion Asset Management, con la quale Li avrebbe sì avuto dei legami, ma non è chiaro di che natura, dice il New York Times. Negli ultimi anni, poi, il Guangdong Lion Asset Management avrebbe cambiato proprietario di maggioranza per quattro volte: in due di queste, il passaggio sarebbe avvenuto senza transazioni, cioè a costo zero.

Le miniere di fosfati di Fuquan avrebbero un giro d’affari di 108 milioni di euro annuali, e la quota di competenza di Li sarebbe attorno ai 65 milioni. Questa attività è anche quella di cui si hanno più notizie, dato che Li risulta poco conosciuto anche in Cina, dove non appare nelle liste dei maggiori imprenditori del paese. Le poche notizie che si trovano su di lui riguardano una truffa avvenuta alla fine degli anni Novanta ai danni di alcune migliaia di risparmiatori per la quale fu però assolto, a differenza del padre e del fratello, entrambi condannati alla reclusione.

Wee, McMorrow e Panja, i tre autori dell’articolo del New York Times, sono stati nel palazzo di Guangzhou che viene indicato come sede del Guangdong Lion Asset Management. Ma i locali sono sbarrati e agli ingressi l’amministrazione dell’edificio ha affisso dei cartelli per indicare che la chiusura è dovuta al mancato pagamento dell’affitto. Un portavoce del Milan contattato dal New York Times ha però sostenuto che Li detiene il controllo delle attività minerarie, come confermato anche dai controlli effettuati dagli avvocati e dalle banche al momento della vendita della società.

La solidità finanziaria di Li non è importante solo per gli investimenti a breve termine: nei giorni scorsi la dirigenza del Milan ha sottoposto alla UEFA un piano per arrivare al pareggio di bilancio entro 4 anni, condizione richiesta dal cosiddetto “fair play finanziario” per le società che cambiano proprietà. La UEFA dovrà stabilire se il piano di investimenti del Milan e del suo nuovo proprietario sia credibile. In caso negativo, il Milan potrebbe ricevere una sanzione economica – come già successo a Inter e Roma nel 2015 – ma soprattutto subìre un nuovo grave danno d’immagine.


Milan, i 12 punti oscuri della vendita ai cinesi

La vendita del Milan è fissata per il 3 marzo 2017: prima della fatidica data la società dovrà convocare l’assemblea degli azionisti che si riunirà quando Sino-Europe farà arrivare i 320 milioni di euro che ancora mancano per chiudere l’operazione. Allora gli amministratori in carica si dimetteranno per lasciare spazio ai nuovi vertici cinesi. Sulla carta sembra solo un passaggio formale, ma la vicenda è molto più complicata di così. E le domande senza risposta sono tante, nella forma e nella sostanza.

1)    Perché i cinesi stanno pagando il Milan a rate?

E’ un caso più unico che raro. Fininvest e Sino-Europe, guidata dall’uomo d’affari cinese Yonghong Li, hanno pattuito un prezzo di 740 milioni di euro: 520 milioni alla holding della famiglia Berlusconi, più l’accollo di 220 milioni di debiti. Le trattative di questo tipo vengono solitamente chiuse in un colpo solo: una firma e una transazione bancaria. Certo, i pagamenti possono anche essere dilazionati nel tempo, ma spesso a fronte di una fidejussione bancaria che faccia da garanzia cosicché il controllo delle società passi di mano subito. E’ successo così per l’Inter quando Massimo Moratti vendette a Erick Thohir e poi quando lo stesso Thohir passò la mano ai cinesi di Suning, la scorsa estate. Stessa modalità per la cessione della Sampdoria a Massimo Ferrero da parte della famiglia Garrone (che però alla data dell’ultimo bilancio disponibile continua a garantire per l’attuale proprietario). Percorso identico anche per James Pallotta che ha rilevato la Roma nel 2011. In tutti questi casi di caparra neppure l’ombra. Sono arrivati, invece, i contanti o le garanzie bancarie.

2)    Perché i cinesi non si avvalgono di advisor finanziari?

Di solito operazioni di questo genere vengono finanziate da diversi istituti, proprio per la complessità di mettere insieme, rapidamente, le cifre necessarie a chiudere l’affare. I cinesi, invece, non hanno voluto l’aiuto di nessuno dichiarando di avere a disposizione tutto il budget. Eppure non riescono a transare. Evitando di chiedere l’intervento di una banca hanno evitato un controllo dei conti (due diligence) approfondito, come quelli che sono necessari quando nelle trattative sono coinvolti i Pep: persone politicamente esposte, come nel caso di Silvio Berlusconi. Nessuna banca, quindi, e nessuna indagine approfondita sulle parti in causa.

3)    Chi è Yonghong Li?

Nessuno lo sa. Prima della sua complicata scalata al Milan non era mai entrato nei radar dei media, ma neppure degli imprenditori e dei diplomatici. Non era noto agli uffici del commercio con l’estero e neppure alle ambasciate. Anche per gli addetti ai lavori del calcio orientale è un mistero. Per Marcello Lippi che in Cina è una divinità si tratta di uno sconosciuto, Fabio Cannavaro ammette di saperne poco. Alberto Forchielli, partner di Mandarin Capital, ha più volte detto che la cordata non esiste. Poche informazioni anche in rete, ma probabilmente dipende anche dal diverso alfabeto. Il Sole 24 Ore, invece, è riuscito a scoprire di una multa comminatagli da parte della Borsa di Shanghai per attività irregolari. Di certo, però, c’è un Yonghong Li tra i Panama Papers: è uno dei tre intestatari di una società offshore a Panama. Potrebbe essere un caso di omonimia, ma il diretto interessato non ha mai smentito. La società, Alkimiaconst Sa, è stata aperta da Mossack Fonseca, lo stesso intermediario che ha creato, Struie una cassaforte di cui si sono serviti sia Silvio Berlusconi sia Flavio Briatore (benché i loro nomi non compaiano direttamente nelle carte panamensi): a riempirla, invece, era stato l’avvocato britannico David Mills, creatore di un sistema offshore da 775 milioni di euro. L’ipotesi è che Yonghong Li sia l’apripista di altri investitori che non vogliono esporsi.

4)    Di chi sono i 200 milioni versati a Fininvest?

La prima tranche è stata pagata da Yongyong Li, probabilmente attraverso Crédit Suisse, la banca svizzera coinvolta nei Panama Papers che a maggio dello scorso anno ha annunciato la chiusura dei suoi uffici nel paradiso fiscale centroamericano. La banca – che rifiuta ogni commento – è stata più volte accusata di aver aiutato contribuenti di tutto il mondo a eludere il fisco: negli Stati Uniti hanno pagato una multa da 2,5 miliardi di dollari, in Italia hanno transato 109,5 milioni di euro nell’ambito dell’accusa di aver aiutato 13mila contribuenti a evadere 14 miliardi di euro. La seconda tranche è un mistero. I 100 milioni sono effettivamente arrivati in casa Fininvest, ma prima hanno fatto il giro del mondo: sono partiti da un veicolo (Willy Shine, con una chiara allusione sessuale, come nota l’Oxford Dictionary) con sede alle Isole Vergini Britanniche – lo stesso paradiso fiscale noto a tanti imprenditori italiani, da Berlusconi a Galliani – per arrivare alla sede di Hong Kong di Huarong, l’asset manager controllato dal governo, che li ha poi girati a Fininvest.

5)    Perché è stata necessaria questa triangolazione?

Nessuno sa spiegarlo. Huarong, al momento, non fa parte della cordata Sino-Europe, ma avrebbe anticipato l’ultima caparra da 100 milioni (la società non conferma l’operazione, ma il documento pubblicato da Calcio e Finanza riporta la firma di un suo dipendente). La prima versione ufficiale è che Huarong non avesse tutte le autorizzazioni necessarie per superare il controllo dei capitali imposti dal governo cinese. Eppure, il bonifico per Fininvest non è partito dalla Cina, ma dalla sede di Hong Kong di Huarong dove la valuta è il dollaro locale e non il renminbi cinese oggetto di controllo. E, infatti, mentre in Cina è effettivamente in atto una stretta sull’uscita dei capitali, l’ex colonia britannica rimane una zona franca. La seconda spiegazione, invece, è che Huarong non avesse 100 milioni disponibili a Hong Kong, ma è una giustificazione che regge solo fino a un certo punto: il gruppo, infatti, ha un fatturato da oltre 11 miliardi di dollari e asset gestiti per oltre 110 miliardi e negli ultimi due anni ha collocato obbligazioni in dollari americani per quasi cinque miliardi.

6)    Dal momento che dicono di avere molti capitali all’estero, perché i cinesi non hanno direttamente creato un veicolo offshore per comprare il Milan?

E’ un’altra domanda senza risposta. Dal momento che l’arrivo di una stretta sui movimenti di capitali era attesa e in parte dovuta alla promozione del Renminbi tra le valute di riserva del Fmi, Sino Europe avrebbe potuto far partire l’operazione direttamente dalle Isole Vergini, invece ha preferito complicarsi la vita.

7)    E’ davvero credibile che la stretta sui capitali impedisca di chiudere l’operazione?

Per tutti gli esperti contattati da Business Insider no. Sono strane le lungaggini burocratiche – i tempi per avere le autorizzazioni a completare gli investimenti all’estero sono di circa 50 giorni – ed è strano l’approccio delle parti alla trattativa. Secondo i dati dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero, l’interscambio tra Cina e Italia resta costante. Di più: tra il 2006 e il 2015 lo stock di denaro investito dalla Cina all’estero è arrivato a 1.097 miliardi di dollari (145 miliardi solo nel 2015) e il governo ha annunciato di voler aumentare la quota di altri mille miliardi tra il 2016 e il 2020. Se Pechino ha davvero intenzione di investire 200 miliardi di dollari l’anno all’estero, perché fatica ad autorizzare una spesa da 520 milioni, pari allo 0,25% dell’importo annuo? Se il governo – come sbandierato da Sino Europe – ha davvero autorizzato l’acquisizione del Milan perché adesso la ferma? E, in fondo, Huarong è davvero controllata dal governo di Pechino.

8)    Perché Sino Europe non comunica la lista dei nomi?

La compagine azionaria di Sino Europe è un mistero. Vuole essere un fondo di private equity, ma si comporta come una piccola società di amici. I nomi messi in circolazione cambiano di continuo: nel calderone è finita anche China Construction Bank – poi uscita dalla lista -, ma la sostanza non cambia, a parole sarebbero tutti soci con fatturati da decine di miliardi. Di più, avrebbero già messo tutto il capitale necessario, ma allora perché non riescono a comprare il Milan nei tempi prestabiliti? Di certo esiste una lista di soggetti interessati all’operazione, ma nessuno è vincolato a investire. Un’altra spiegazione è che se i grandi nomi venissero resi pubblici, i venditori potrebbero provare a chiedere ancora più soldi.

9)    Perché non viene rispettato il protocollo degli affari asiatici?

In Cina l’etichetta è tutto. Prima di parlare di affari è fondamentale conoscersi e i cinesi non amano gli emissari. Vogliono incontrare l’azionista, vogliono conoscere il venditore. Di più: vogliono il loro biglietto da visita per poterlo conservare. E non lo accettano per interposta persona: il biglietto da visita va consegnato con le due mani e un leggero inchino del capo. Tutto questo, invece, non è mai accaduto. Sono stati i cinesi a venire in Italia, mentre pare che Silvio Berlusconi non sia mai stato in Cina a condurre la trattativa. Neppure risulta ci sia stata sua figlia Barbara.

10)    Perché la data del closing cambia continuamente?

Se davvero Sino Europe ha già raccolto tutti i soldi necessari da tempo, perché non ha chiuso l’affare a settembre, prima che scattasse l’ampiamente atteso controllo dei capitali.

11)    Perché il Milan non può spendere per la campagna acquisti di gennaio?

Gli accordi prevedono che tutte le spese sostenute da Fininvest per il Milan a partire dal primo luglio 2016 fino alla data del closing siano rimborsate da Sino-Europe alla famiglia Berlusconi. Compreso, quindi, il calcio mercato. Tanto è vero che in società è entrato Marco Fassone, ad in pectore e uomo forte dei soci cinesi, ma perché allora non vengono aperti i cordoni della borsa in un momento in cui il Milan può ambire a posizioni di vertice? Quali altri garanzie servono per operare sul mercato? Ci sono dei dubbi sul successo dell’operazione? A spazzarli via sarebbe bastata una fidejussione bancaria.

12)    E’ possibile che siano soldi di Fininvest?

E’ impossibile dare un risposta. Di certo c’è che alle Isole Vergini Britanniche esiste una delle casseforti riferibili a Silvio Berlusconi, ma è troppo poco anche per avanzare un sospetto. Inoltre, far rientrare dei soldi attraverso la Cina sarebbe un’operazione alquanto azzardata e infatti la holding della famiglia Berlusconi respinge ogni illazione. I fatti accaduti finora, però, indicano che il tira e molla con i cinesi ha già portato a Milano 200 milioni di euro di caparra che resteranno nelle casse della società anche se la vendita del Milan non dovesse concludersi.

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