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venerdì 22 luglio 2011

Mi chiamo Mina ero alla Diaz dieci anni fa




 http://www.e-ilmensile.it/2011/07/21/mi-chiamo-mina-ed-ero-alla-diaz-dieci-anni-fa/




Mi chiamo Mina  ero alla Diaz dieci anni fa





Mi chiamo Mina ed ero alla Diaz dieci anni fa.
Ho vissuto quella notte, ed anche tutti questi anni di processi a Genova. Sono tornata a testimoniare più volte e ho seguito l’iter giudiziario da vicino.
Da quella notte di repressione come da tutti questi anni di giustizia ho imparato tanto sul sistema nel quale viviamo e sulle istituzioni democratiche.
La notte della Diaz ho visto come i poliziotti ci picchiavano sulla testa, a sangue, lasciando incoscienti delle persone disarmate, che aspettavano il loro ingresso con le mani alzate.


Abbiamo rischiato la vita. Le forze dell’ordine hanno eseguito le consegne dei loro dirigenti. Lo stato democratico ha scaricato il suo braccio armato, manganellata dopo manganellata sui nostri corpi.
“Se non hai fatto nulla, non ti può succedere niente” quello è falso, e sulla base della mia esperienza posso solo consigliare di scappare sempre, di non farsi prendere mai.
Sono stata a Bolzaneto, in carcere e poi deportata dall’Italia di notte, mi hanno applicato la legge antiterrorista: non ho potuto chiamare nessuno, o vedere un avvocato fino a 5 minuti prima dell’udienza con il giudice che doveva convalidare il mio arresto. Per i miei genitori e per i miei amici sono stata una “desaparecida” per giorni.
Ho dovuto aspettare per anni la fine dell’indagine su di me per poter vedere la polizia sotto accusa in un processo reso possibile solo grazie all’impegno di una rete di avvocati e persone solidali, così come un pubblico ministero.
Mi ricordo la prima volta che sono tornata a Genova per l’inizio del processo Diaz: il palazzo di giustizia era circondato dalle forze dell’ordine, la sala era tutta piena delle stesse divise.
Eravamo noi gli indagati. Il tono era minaccioso e la giustizia uno spettacolo.
Ho imparato che la polizia non si sottomette alla giustizia.
Né in Italia, né in nessun’altra parte d’Europa. La polizia reprime impunemente i giovani delle banlieue francesi e tortura nei Paesi Baschi, i migranti la subiscono quotidianamente. Non è una italianata.
Da questo punto di vista, ho avuto molta fortuna a poter essere parte civile, sono solo una dei tanti che in quei giorni a Genova ha sofferto un apparato repressivo scatenato.
Ma purtroppo, la lentezza di questa giustizia (10 anni e non ha ancora finito), e tutte le assurdità che ho vissuto nei processi dovrebbero preoccuparvi. I poliziotti che hanno rischiato di uccidere qualcuno alla Diaz e hanno ferito gravemente tanti, che hanno scritto il falso nei verbali di arresto e che ci hanno torturato a Bolzaneto sono accusati di reati meno gravi che i manifestanti accusati di devastazione e saccheggio, cioè quelli che si sono fatti beccare mentre causavano danni materiali. La vita delle persone vale meno delle cose? I poliziotti valgono di più dei manifestanti?
Ho imparato che lo stato ha fiducia nei suoi poliziotti.
Questi funzionari sono stati promossi perché hanno fatto bene il loro lavoro. Non cambieranno il loro modo di lavorare, e poveri quelli che bloccano l’autostrada in un giorno di sciopero o che provano a fermare la TAV.


Mi ricordo seduta nell’autobus, la polizia ci scortava fuori dal carcere. I poliziotti dietro di me si sono messi a canticchiare “Auschwitz, Auschwitz” per farmi paura. Il problema è endemico e non si risolverà quando Berlusconi non ci sarà più, perché le forze dell’ordine rimangono.
Ancora un paio di anni e forse vedremo i risarcimenti, che pagheranno gli italiani di tasche loro. I processi andranno a finire così. Nessuna conseguenza politica, né risposta istituzionale.
Delle sentenze che condannano, ma i capi d’imputazione che sono andati in prescrizioni. Dei singoli funzionari accusati, ma nessun cambiamento nel sistema. L’azione delle forze dell’ordine non è stata messa in dubbio, si parla ancora di mele marce. Non è quello che ho vissuto io. Posso testimoniare che la polizia porta la guerra nella manifestazione, agendo in maniera uniforme e coerente. Tutti hanno picchiato all’unisono, e hanno fatto il loro lavoro: il lavoro della polizia democratica.
Ma non sono così pessimista. Questi processi sono stati un’occasione per sentire parlare questi funzionari, anche se solo quelli che hanno testimoniato. Alcuni si sono avvalsi del diritto di non rispondere, altri non potevano venire in aula perché insegnavano ai poliziotti iracheni a fare la polizia democratica. Abbiamo ascoltato le forze dell’ordine e anche noi abbiamo testimoniato, è tutto negli atti, le sentenze confermano le nostre testimonianze. La dinamica dei processi ci ha anche regalato l’occasione di parlare di quello che è successo. Oggi siamo qui per parlarne.
Per quello che riguarda me, ho imparato l’italiano e ho cominciato a studiare legge. Finisco l’anno prossimo. Forse faccio prima io a finire il mio studio, che la giustizia a dare una risposta!


Ho trovato della gente in tutto questo percorso che non potrei mai ringraziare abbastanza. Perché se le istituzioni non danno una risposta, ti picchiano senza senso, o ti sommergono di scartoffie, le persone che tutti questi anni hanno lavorato tantissimo sono riuscite a rendere per me Genova un luogo di solidarietà e non di repressione.

Grazie.


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