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venerdì 9 ottobre 2009

La guerra lampo di Silvio B.

La guerra lampo di Silvio B.

Giuliano Santoro


«Viva Berlusconi, viva l’Italia». Un giorno si ricorderanno queste parole pronunciate da Silvio Berlusconi sul portone di palazzo Grazioli. E si ricorderà questa data: il 7 ottobre del 2009. Questo giorno verrà ricordato sicuramente per via del salto di qualità del populismo di Silvio Berlusconi, che segna un passaggio-chiave nel quindicennio segnato dalla discesa in campo del serial-leader. Sono passate poche ore dalla sentenza della Corte costituzionale che boccia il lodo Alfano senza appello sia nella forma [è necessaria una legge costituzionale per sancire l’immunità del premier, dei presidenti dei due rami del parlamento, del presidente della repubblica e di quello della corte suprema] che nel merito [l’articolo 3 della legge fondamentale stabilisce che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge] ma stavolta non siamo di fronte a un qualche dietrofront. Sembra sempre più evidente il passaggio di scala del disegno berlusconiano.
Fino a oggi quando parlavamo di populismo ci riferivamo a una tendenza strisciante della strategia di B.: di fronte alla disgregazione delle classi sociali e delle forme produttive e ridistributive del Novecento, sulle macerie dei partiti della prima repubblica il premier costruiva con la forza delle televisioni un «popolo» e se ne faceva al tempo stesso interprete e trascinatore.
Adesso, il populismo di cui è protagonista l’uomo di Arcore eccede definitivamente la sfera – diciamo così – meramente sociologica della Videocrazia e fa irruzione una volte per tutte e con violenza nella claudicante forma-Stato, irrompe nei meccanismi istituzionali, si getta a peso morto nell’equilibrio delicato della divisione dei poteri. Quel gioco di allusioni, attacchi smentiti, avanzamenti improvvisi e ritirate tattiche che fino ad oggi aveva segnato la meticolosa strategia berlusconiana ieri sera è stato interrotto da una specie di guerra-lampo contro i giudici, la corte costituzionale e il presidente della repubblica dichiarata in diretta televisiva al salotto di Bruno Vespa. Berlusconi dice chiaramente e senza mezzi termini che siccome ha vinto le elezioni, e il «popolo» è con lui, può comandare sondaggi e telecamere alla mano, senza rispettare i vincoli costituzionali.
Mai come in questo anno e mezzo di governo il potere legislativo è stato mortificato e cancellato a colpi di fiducia. Dopo aver trasformato il parlamento in un votificio delle proposte di legge dell’esecutivo, Berluskane passa all’attacco del potere giudiziario. «Ci sono due processi farsa, risibili, assurdi, che illustrerò agli italiani, anche andando in tv. Mi difenderò più spesso nelle aule dei tribunali, facendo esporre al ridicolo gli accusatori, mostrando a tutti gli italiani di che pasta sono fatti loro e di che pasta sono fatto io», ha detto ancora oggi il leader Pdl, che ha poi ribadito lo slogan di ieri: «Per fortuna che Silvio c’è, altrimenti il Paese sarebbe nelle mani della sinistra». Oggi, tanto per svelenire il clima, è atteso il programma di Michele Santoro, «Anno Zero» che si occuperà di mafia con il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in studio. Faceva una certa impressione, questa mattina, sentire un consumato commentatore come il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin, conduttore del rassegna stampa di culto della mattina e avido consumatore di tabacco, politica e sarcasmo, paragonare la foto di Silvio e dei suoi che avanzavano verso i giornalisti, alla scena di un film di Martin Scorsese [indovinate quale?]. «Meno male che almeno hanno la caravatta a righe», ha chiosato il giornalista.
Ha tutto da guadagnare, Umberto Bossi che conduce la solita partita al rialzo che ha segnato tutta la vicenda politica della Lega: da un lato mostra il petto e promette che mobiliterà «il popolo», dall’altro incontra Gianfranco Fini e concorda di evitare il ricorso alle urne in quello che si trasformerebbe in un pericolosissimo plebiscito sul presidente del consiglio. Il doppio gioco di Bossi non è solo dettato dalla formula «di lotta e di governo». È il destino del suo partito, oltre che la vera contraddizione che prima o poi lo farà a pezzi, quello di dipendere contemporaneamente dal militante in pelliccia da unno di Pontida e dalle casse e dal potere centrale di Roma Ladrona. Il presidente della Camera Gianfranco Fini cerca di salvare il salvabile: «L’incontestabile diritto politico di Berlusconi di governare conferitogli dagli elettori non può far venir meno il suo preciso dovere costituzionale di rispettare la Corte costituzionale e il Capo dello Stato».
La giustizia, che si tratti di quella costituzionale o quella penale, al centro dello scontro politico risveglia i bassi istinti della destra [il condirettore del giornale Alessandro Sallustri ieri ha sentito il bisogno di sottolineare che «Napolitano è stato complice dei crimini del comunismo»] ma risveglia l’opposizione giustialista: Antonio Di Pietro è ormai la macchietta di se stesso quando chiede le dimissioni del governo, mentre il Fatto quotidiano di Antonio Padellaro e Marco Travaglio ostenta un paio di manette inquietanti in prima pagina e propone una ricostruzione della giornata di ieri che pare un monologo satirico ma che non sta in piedi, agenzie alla mano: Travaglio ipotizza che a convincere gli indecisi della Corte costituzionale siano state le sparate di Bossi sulla Padania «pronta alla guerra». Ma quelle dichiarazioni sono arrivate dopo le 13, quando la notizia della bocciatura del lodo Alfano era già trapelata e Berlusconi aveva già convocato i suoi per decidere, contravvenendo ai consigli di Fini, il Blitzkrieg istituzionale.
Se siamo arrivati fino a questo punto significa che il problema è molto più grande di Berlusconi. Il passaggio dalla guerra di trincea e logoramento a quella di aggressione e movimento impone la presa d’atto della crisi radicale della rappresentanza: difendere le garanzie e l’equilibrio dei poteri della Costituzione formali non dovrebbe impedire di capire come rimediare al deperimento della politica rappresentato dal manifestarsi di una costituzione materiale del paese che istituisce legislazioni speciali per i migranti, cancella i diritti di milioni di precari nonostante «la Repubblica fondata sul lavoro». L’escalation, insomma, impone un punto di vista dal quale l’anomalia berlusconiana è indice di una crisi sociale e che la situazione dell’Italia presenta qualche analogia con la crisi economica e sociale che si respira in tutto l’Occidente. Purtroppo, o forse per fortuna, non basteranno né una sentenza della magistratura né un sondaggio del premier per ristabilire una qualche forma di sovranità.

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