Le Carte Parlanti

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Mundimago

giovedì 30 luglio 2009

Clandestino o figlio di nessuno

Nato il 9 di agosto, clandestino o figlio di nessuno

Rossella Panuzzo Terre des hommes


Dall’8 agosto, giorno in cui entrerà in vigore il Pacchetto sicurezza, scatterà l’obbligo di mostrare il permesso di soggiorno per l’iscrizione all’anagrafe dei nuovi nati. Terre des Hommes condivide l’allarme lanciato oggi dalla Prefettura di Prato e chiede che sia subito rivisto il testo del DDL 773-B affinché tuteli il diritto alla registrazione alla nascita a tutti i bambini, compresi quelli nati da genitori migranti irregolari, contenuto nella nostra Costituzione e nella Convenzione dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

«Questo allarme, che proviene da un rappresentante dello Stato Italiano, è la prova dei dubbi di incostituzionalità e palese violazione dei diritti umani fondamentali che già avevamo sollevato in sede di approvazione del Pacchetto Sicurezza», dichiara Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes. «L’impossibilità di registrare all’anagrafe i figli degli immigranti irregolarmente presenti sul nostro territorio significa che questi bambini saranno condannati all’invisibilità, non potranno né andare a scuola né essere curati dalla sanità pubblica. L’alternativa per loro è essere dichiarati figli di nessuno e quindi adottabili, pur avendo dei genitori. Come diventa sempre più evidente, questa situazione deve essere corretta con una revisione attenta del testo ancora prima che la legge entri in vigore».

Nei mesi scorsi Terre des hommes aveva espresso la sua preoccupazione sulle difficoltà della registrazione all’anagrafe dei bambini nati da genitori migranti irregolari, introdotte dal DDL 773-B e aveva lanciato una petizione online che in pochi giorni ha raccolto oltre 8.000 firme. L’introduzione del reato di clandestinità sancisce per legge l’esclusione di questi bambini dai più elementari diritti – quali il diritto a un nome e a una identità. «Tutti questi minori finiranno per essere invisibili allo Stato italiano, con il concreto rischio di cadere nelle maglie della criminalità organizzata e diventare vittime di abusi, sfruttamento e tratta», conclude Salinari.

Terre des hommes Italia onlus è una organizzazione non governativa che si occupa di aiuto diretto all’infanzia in difficoltà nei paesi in via di sviluppo, senza discriminazioni di ordine politico, etnico o religioso. Nata nel 1989 e diventata fondazione nel 1994, TDH Italia oggi è presente in 23 paesi di tre continenti con oltre 90 progetti di aiuto umanitario d’emergenza e di cooperazione internazionale allo sviluppo, con programmi in settori quali salute di base e protezione materno-infantile, educazione di base, formazione professionale, protezione dei bambini di strada ed in conflitto con la legge, promozione dei diritti umani, attività generatrici di reddito e sviluppo delle risorse naturali.
TDH Italia fa parte della Terre des hommes International Federation, lavora in partnership con ECHO ed è accreditata presso l’Unione Europea e l’ONU.

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Pascua Lama: un popolo grida

Pascua Lama: un popolo grida

Javier Karmy Bolton

Il racconto della lotta dei movimenti sociali cileni e argentini contro la multinazionale Barrick Gold. Un brano tratto da «America latina dal basso. Storie di lotte quotidiane», a cura di Marco Coscione, edizioni Punto Rosso-Carta.

Il conflitto con la multinazionale Barrick Gold ed il suo progetto minerario “Pascua Lama” ci ha ricordato la secolare storia del saccheggio del continente latinoamericano. Cinque secoli esattamente uguali, le vene aperte, la ricerca del “El Dorado”, l’oro e l’oppressione dei popoli originari e lo sfruttamento della Madre Terra. Chi di noi si è avvicinato alla lotta contro la multinazionale canadese, avrà capito che questa supera i confini nazionali e gli obbiettivi del progetto. La cosa più importante, infatti, è stata riscattare l’acqua, bandiera della lotta per una vita sana, pulita e comunitaria, che si regga sulla fiducia reciproca; l’acqua, goccia a goccia, ci ha rafforzato per permetterci di trasformare le nostre strade in fiumi naturali che alimentano le nostre radici. Il giacimento rimane proprio là dove sgorgano le fonti d’acqua della millenaria Valle del Huasco, nella terza Regione (Atacama), dove esistono ancora grandi ghiacciai. Abbiamo rivalorizzato le nostre forme di vita più lontane dai soldi e più vicine alla tenera fiducia in noi stessi e nei nostri compagni, abbiamo avuto un’ulteriore conferma sul fatto che gli impegni di certi governanti rispondono solo ad interessi particolari e non certo a proteggere l’acqua che scende dalle montagne, dalla cordigliera andina.

$ile si vende…
Il nostro paese negoziò il sottosuolo nazionale ed i suoi minerali in cambio della fine della dittatura di Augusto Pinochet (1973-1989). Questa ipotesi è sostenuta dal fatto che, sebbene la Costituzione del 1980 (ancora in vigore nonostante i ritocchi cosmetici durante il governo Lagos) sia il documento fondamentale contenente le basi del presente modello economico, dove l’industria mineraria è chiaramente prioritaria, i progetti minerari transnazionali cominciarono a concretizzarsi proprio agli inizi del primo governo della Concertación nel 1990, con l’allora presidente Patricio Aylwin (Democrazia Cristiana, DC). Agli inizi degli anni Novanta infatti, vennero varate delle leggi ancora più favorevoli e remissive nei confronti delle attività estrattive .
Ricordiamo che in Cile, già Eduardo Frei Montalva (DC) nazionalizzò il rame alla fine degli anni Sessanta e poi fu la volta di Salvador Allende (Unidad Popular, UP) che sul tema raggiunse l’unanimità del Congresso Nazionale. Diciassette anni dopo, Aylwin apriva il territorio nazionale al mercato ed alla mano invisibile delle transnazionali.
Inoltre, l’industria mineraria fu favorita dalla promulgazione del “Codice delle Acque”, in vigore dal 1982: l’acqua diventava un bene commerciabile nel mercato internazionale, amministrato centralmente e senza alcuna priorità nei confronti del consumo umano . Ossia, chi può pagare beve, chi non può… Come si può facilmente immaginare, una delle transnazionali più importanti nell’estrazione dell’oro deve possedere grandi risorse economiche. E allora arrivò in Cile, offrendoci così tanto che alcuni pensavano si trattasse di un’istituzione di beneficenza. Non solamente hanno comprato concessioni minerarie, “azioni” dell’acqua, e consegnato aiuti economici sotto forma di ambulanze, fondi per lo sviluppo sostenibile di alcune comunità e borse di studio per studenti; hanno anche firmato vari accordi con dipartimenti regionali di alcuni ministeri, hanno creato progetti con fondazioni di beneficenza come ad esempio la Teletón ed altre di tipo sportivo, come quella del calciatore Iván Zamorano; e hanno persino messo in scacco la Chiesa, quando un’istituzione legata alla Compagnia di Gesù s’impegnò con la Barrick a mettere in moto un progetto per migliorare la qualità di vita dei più poveri della comunità della Valle del Huasco, in aperta contraddizione con la comunità religiosa della zona, da in opposizione al progetto Pascua Lama.
Senza contare i campionati sportivi, i corsi di formazione e i libri che arrivano nella zona con la sua firma sul retro. In questo modo, la Barrick ha comprato poco a poco i favori dei dirigenti locali, provinciali, nazionali, delle organizzazioni sociali e politiche che ormai hanno espresso il loro appoggio pubblicamente. Tutto ciò con l’obbiettivo di sfruttare al massimo il giacimento più importante esistente al mondo, oggi valutato attorno ai 3 miliardi di dollari.

L’acqua vale più dell’oro…
Nella Valle del Huasco vivono poco più di 254.000 abitanti che si dedicano principalmente all’agricoltura e all’allevamento, seguendo il ciclo vitale di quest’angolino azzurro del pianeta che, nonostante si trovi nel deserto più arido del mondo, regala ai bambini rinfrescanti ruscelli provenienti dalle calde acque della terra.
Uomini e donne, contadini e contadine che bevono mate sotto il solo implacabile delle Ande; i bambini che gridano mentre si tuffano al fiume, i giovani occupati in varie attività per mantenere vive le loro amicizie; gli animali (capre, asini, cavalli), gli alberi e la terra coltivata a meloni, angurie, cipolle, alberi da frutta e, naturalmente, uva per la grande esportazione che ogni anno dà lavoro a 7.000 lavoratori stagionali; tutti hanno risentito della presenza della Barrick nella Valle. La comunità è divisa perché la multinazionale ha saputo introdursi nella vita quotidiana delle persone con i soldi, migliorando le strade ed i ponti, regalando computer agli alunni delle scuole rurali e assicurando un numero indefinito di “benefici” che cadranno dal cielo “grazie” alla Barrick… Sembra così essere più efficiente della burocrazia dello Stato nel rispondere alle “esigenze” della comunità.
Tuttavia, la prima conseguenza di queste azioni “benefiche” è stato lo smembramento della comunità per fare in modo che, poco a poco, perda fiducia nelle proprie capacità di autosostentamento ed autogestione, nel proprio modo di vivere in modo autonomo e pulito, e cominci a chiedere, ad aspettare solo le briciole di una transnazionale che si porta via milioni di dollari sotto forma d’oro e lascia un computer ad ogni bambino: un’assurdità.

Atterraggio della Barrick sulle Ande
La Barrick arrivò nella zona agli inizi degli anni Novanta, cominciando immediatamente a lavorare sui ghiacciai. Dopo la scoperta del giacimento, il 29 dicembre del 1997, la transnazionale canadese convinse le repubbliche cilena ed argentina a firmare il Trattato di “Cooperazione ed Integrazione Mineraria”. Questo trattato fu sottoscritto dai presidenti Frei e Menem con la scusa dell’integrazione tra i popoli dei due lati della cordigliera .
Questo trattato permette quindi all’industria mineraria di lavorare proprio sulla frontiera tra i due paesi: chilometri di zone protette militarmente. Per quanto riguarda il Cile, dalla Seconda Regione di Antofagasta nel nord del paese, fino a Punta Arena nella Dodicesima Regione, o regione antartica, nel Sud. Entrambe le repubbliche del Cono Sur, consegnano parte dei loro territori alla transnazionale, affinché questa ne sfrutti le risorse millenarie. Attenti studiosi del Trattato affermano che si viene a costituire una sorta di “paese virtuale”, né Cile né Argentina: sebbene il suolo è di entrambi i paesi, il sottosuolo viene ceduto all’industria mineraria. Infatti, solo le transnazionali del settore minerario possono entrare in questo spazio virtuale, dove i paesi hanno ceduto di fatto la sovranità. Secondo le dichiarazioni dei senatori dell’epoca, la Barrick si vantava di aver promosso questo accordo per mettere in moto il primo progetto binazionale nel mondo .
La cosa strana è che il Trattato in questione comprende anche la frontiera sud tra l’Argentina e il Cile, dove non c’è nessuna miniera. Al riguardo, nemmeno l’ex Presidente Eduardo Frei (figlio) fu in grado di rispondere quando, nel 2000, la Commissione lo interpellò sull’attività mineraria del Senato. Ma la risposta è semplice: nella regione australe i ghiacciai rappresentano un’enorme riserva d’acqua.
A livello locale, la transnazionale aveva già firmato un accordo di cofinanziamento con il Governo Regionale e la Direzione di Viabilità nel 1998, per asfaltare la strada C-489, la principale via d’accesso alla miniera. Strano, perché il governo regionale doveva anche partecipare alla valutazione d’impatto ambientale che la Barrick avrebbe poi presentato tre anni dopo. I sacerdoti che sulla cordigliera dicevano messa di ringraziamento per la presenza dell’oro, a partire del 2000 smisero di recarsi alla Barrick, perché i nuovi responsabili non ne gradivano la presenza. Nonostante questi sacerdoti raccontassero di essere trattati bene e che sempre scendevano a valle con “dolcetti e leccornie”, made in Barrick. Nel 2001, la Commissione Nazionale per l’Ambiente (Conama), approvò il Progetto Pascua Lama. La comunità non capì l’importanza di questa approvazione, ma comprese che in un certo senso la Barrick mentiva perché nascondeva il fatto che l’oro si trovava proprio sotto ai millenari ghiacciai. Così i piccoli, ma anche grandi, agricoltori cominciarono ad alzare la voce per cercare di ottenere risposte su come un progetto milionario come questo avrebbe protetto i ghiacciai.

Il conflitto si allarga…
Nel 2004, la Barrick presentò un ampliamento del suo progetto originario. A partire da questo momento, la comunità locale della Valle del Huasco, appoggiata da vari religiosi della zona, trasformò il conflitto locale in conflitto internazionale. Soprattutto grazie ad Internet e vari mezzi di comunicazione alternativi ed indipendenti, si diffusero diverse notizie sul famoso e ridicolo “Piano di gestione dei ghiacciai” presentato dalla Barrick alla Conama, dal 2001 in attesa di risposte in merito al problema del salvataggio dei ghiacciai. La transnazionale si vantava degli ottimi risultati ottenuti in Kirjistán durante il “trasferimento” di alcuni ghiacciai, ma non servì molto tempo per rendersi conto (e varie organizzazioni scientifiche lo denunciarono) che si trattava di un’altra menzogna.
Perciò sempre più gente iniziò ad opporsi al progetto Pascua Lama: per due anni ebbe luogo una lotta veramente intensa nella vallata, ma anche nella capitale, a Santiago, dove attivisti e mezzi di comunicazione presero la parola. Al centro del dibattito, naturalmente, vi erano i posti di lavoro creati dall’industria mineraria, ma allo stesso tempo diverse organizzazioni, collettivi ed anche politici cominciano seriamente a comunicare all’opinione pubblica nazionale i seri danni ambientali che il progetto avrebbe arrecato. Una domanda era sempre più evidente: ambiente o sviluppo economico? Per lo Stato cileno non fu difficile scegliere. Nel 2006 la Conama approva l’ampliamento del progetto, ma ad una condizione: non toccare i ghiacciai “Toro 1”, “Toro 2” e “Speranza”. Il 15 febbrario 2006 a Copiapò (capitale regionale della regione d’Atacama), nella sede regionale della Conama, ed a Santiago, davanti agli uffici della sede nazionale, gli attivisti cominciarono a protestare, rifiutando l’ennesima approvazione.
ONG, collettivi, organizzazioni ecologiste e la Chiesa locale dichiararono che Pascua Lama avrebbe significato la morte della Valle del Huasco. Dopo aver perso completamente la fiducia nelle istituzioni nazionali competenti, il movimento passa ad una nuova fase di lotta, alzando una bandiera: verde come la vita e bianca come i ghiacciai, una bandiera che ancora oggi sventola, mentre la forza del vento la sfilaccia poco a poco.

I ghiacciai non si toccano: aspetteremo che si sciolgano…
Tutti gli oppositori del progetto sapevano che approvarlo a condizione di non toccare i ghiacciai era solo uno scherzo: lo stesso direttore dei lavori, Ron Kettles, in un documento pubblicato poco tempo prima, spiegava gli innumerevoli interventi che dal 1977 erano stati realizzati nella zona, da diverse imprese. Inoltre, il documento spiega che, da quando è arrivata la Barrick, sono stati realizzati vari carotaggi, alcuni sul ghiacciaio Speranza, e sono stati costruiti diversi tunnel e sentieri. Addirittura è stata costruita una “struttura in cemento larga approssimativamente 3 metri e lunga 100, sui ghiacciai Toro 1 e Toro 2, per potervi transitare sopra senza danneggiarli” . Inoltre, la Direzione Generale delle Acque, organismo alle dipendenze del Ministero delle Opere Pubbliche, pubblicò (anche se in ritardo) un rapporto nel quale si affermava che i ghiacciai stavano subendo le conseguenze negative dei lavori della Barrick Gold, su una superficie tra il 50 ed il 70% della loro estensione. Il rapporto smentiva categoricamente che il problema fosse il cambio climatico, argomento sempre utilizzato dall’impresa.
Sommando queste informazioni al fatto che, in definitiva, l’impresa garantiva soltanto 1000 posti di lavoro nel periodo della costruzione e 600 nel periodo dell’estrazione e produzione (niente in confronto alle migliaia di occupati nell’agricoltura ogni anno), la comunità locale si mobilitò per difendere i ghiacciai e quindi l’acqua, unica risorsa indispensabile per l’agricoltura. Appoggiati dai collettivi e dalle ONG di Santiago, i cittadini della valle occuparono il crocevia di Conay/Chollay, nel gennaio del 2007. Per un mese, sotto un’improvvisata tenda che riparava dai forti raggi del sole ed attorno ad un fuoco che riscaldava le notti andine, i membri della comunità informavano la cittadinanza e tutte le persone che transitavano per quelle strade. Gli unici a non poter passare erano i veicoli dell’industria mineraria, che, a parte tutto, non avrebbero potuto transitare per strade così strette senza l’accompagnamento di una pattuglia dei carabinieri.
Mai prima di questo blocco, era accaduto qualcosa di simile nella valle: le forze dell’ordine dovettero chiedere rinforzi alle città limitrofe per poter riaprire la strada a tutti i mezzi. Vennero arrestate 50 persone, tra le quali autorità locali, donne e stranieri che per ore resistettero alla brutalità della polizia tenendosi solamente per mano, in circolo, e gridando “Acqua SÌ” ripetutamente. Il 15 febbraio, una serie di manifestazioni colorate e creative, ricordavano l’approvazione del progetto Pascua Lama.
Nella piccola località di Chigüinto, un gruppo di attivisti cominciò a fermare le auto regalando ai conducenti frutta ed acqua, e consegnando loro un volantino che diceva: “Questi sono i beni che vogliamo difendere”. In quei giorni, gente vicina alla Barrick, cominciò a rompere i freni o a bucare le ruote dei mezzi di trasporto utilizzati dai dirigenti locali, che misteriosamente cominciavano ad avere incidenti. Purtroppo non è mai stato possible accusare qualcuno per queste azioni criminali.
Il 7 giugno del 2007 venne convocata dalla comunità locale la quarta edizione della ormai tradizionale “Marcia per la Vita”: zampogne, bandiere, striscioni, colori e canzoni contro Pascua Lama e per la vita.
Durante tutto il 2007, si moltiplicarono le azioni ed il conflitto si mantenne vivo; il 9 febbraio 2008, in conseguenza della caduta dell’elicottero modello Lama CC-CER, l’impresa dichiarò: “Da quando abbiamo iniziato i lavori abbiamo avuto sette incidenti con conseguenze gravi” . La Barrick non ha voluto dare altre spiegazioni, ma la comunità ha già individuato 15 morti dall’inizio dei lavori; senza contare che l’impresa spesso preferisce comprare il silenzio dei familiari in lutto.
Cominciò allora la campagna “Unisciti contro Pascua Lama”: l’obbiettivo era “trasformare” ogni cittadino in un’antenna di comunicazione. Disegnandosi un simbolo sulle mani, l’idea era spiegare il conflitto ambientale a tutti coloro che domandassero il significato di quel disegno. Inoltre, si invitavano i partecipanti a mandare le loro foto.
Arrivarono migliaia di foto, veramente belle ed emozionanti… In questo modo sempre più gente si univa alla lotta.
La campagna ebbe luogo dal 22 marzo al 22 aprile, rispettivamente giorno dell’Acqua e della Terra e si chiuse con un’enorme mobilitazione per il centro della capitale .
Poco dopo, venne organizzata una manifestazione per celebrare il “CompleDanno Fatale” della Barrick, che nel 2008 compiva 25 anni e lasciava già 15 morti sulle colline della cordigliera della Valle del Huasco. Durante la performance davanti agli uffici della transnazionale a Santiago, gli attivisti lasciarono cadere uno ad uno dei grandi sacchi di spazzatura, che rappresentavano i morti caduti in questi anni. Per un minuto, il silenzio frenò la gioia e l’allegria della manifestazione e delle sue zampogne ad acqua… Ora colorate di nero.

Il narcotraffico, le cravatte e la nostra vita…
La Barrick controlla una rete di loschi personaggi che le assicurano la necessaria stabilità politica, sociale ed economica per portare avanti i suoi progetti. Su questi personaggi sono aperte inchieste che li vedono coinvolti in casi di narcotraffico, riciclaggio di denaro sporco, traffico d’influenze e pressioni illecite in diversi paesi. Ad esempio, l’arabo Adnan Khashoggi dovette lasciare l’impresa dopo essere stato scoperto durante il traffico di armi dello scandalo Iran-Contras in Nicaragua; fu catturato in Svizzera nel 1989 per una fuga di capitali del valore di 684 milioni di dollari del Tesoro Filippino. Ma non scontò alcuna pena, perché il suo socio e adesso ex presidente della Barrick, Peter Munk, pagò una cauzione di 4 milioni di dollari. Da allora e fino al dicembre del 2008, l’ebreo Peter Munk assunse la presidenza dell’impresa, negando apertamente le relazioni tra Khashoggi e la Barrick. Ma la multinazionale non poteva dimenticarsi di certi personaggi, così assunse il nuovo presidente Aaron Regent, chiamato a dare un altro volto all’impresa e cambiare la strategia, alquanto fetida, degli ex esecutivi. Un cambio d’immagine da milioni di dollari. La lista non finisce qui: anche George Bush padre e l’ex presidente canadese Brian Mulroney, da quando hanno lasciato i loro incarichi pubblici, fanno parte dell’onorevole consiglio dei consulenti della Barrick. E poi il magnate delle telecomunicazioni Gustavo Cisneros che come gli ex presidenti menzionati, fa parte della giunta direttiva e del consiglio dei consulenti internazionale della multinazionale. O il Andrónico Luksic, impresario cileno, fondatore del Gruppo Luksic.
Questa è solo una parte dell’estesa rete di ex presidenti ed ex ministri di Stato, impresari o funzionari pubblici che lavorano per rendere meno difficoltosa l’estrazione dell’oro disseminato nel sottosuolo dei loro paesi in vari continenti: Nord America, Africa, Oceania, Asia e America Latina… Lasciandosi alle spalle terre ed acque contaminate, ma anche morti all’interno le comunità colpite dai loro progetti milionari e tra i loro stessi lavoratori.

Per noi, un minuto di resistenza, è una vittoria…
Di fronte alla divisione che la Barrick ha provocato tra le comunità della Valle del Huasco, la lotta contro le nuove perforazioni e lo sfruttamento della sua più grande miniera acquista un significato sempre più profondo ogni minuto che passa. Ogni minuto per noi è una vittoria, per loro una sconfitta. Ogni minuto per noi è guadagnato e per loro è perso. E così li obblighiamo a rivedere i loro piani. Ogni minuto ripetiamo che la vita vale più del consumo d’acqua, che l’acqua è un tesoro e che la cultura della morte, propria di questi professionisti in giacca e cravatta, non ha nulla a che fare con i desideri delle nostre comunità.
Ci basta solo un minuto per convincerci che la prossima Marcia per la Vita sarà ancora migliore di quella di quest’anno, perché anche solo un minuto ci aiuta umilmente a raccogliere tutte le esperienze passate e continuare a lottare. Ci basta solo un minuto per arrabbiarci ed opporci a coloro che appoggiano lo sfruttamento minerario ma non vogliono dirlo; un minuto per denunciare coloro che credono che con la “responsabilità sociale d’impresa” si risolve tutto; solo un minuto per scegliere tra la vita e la morte, tra la terra fertile e la sottrazione illecita. Un minuto per noi, il nostro lavoro e quanto vi sia ancora da fare. Oggigiorno siamo in molti ad alzare la voce contro Pascua Lama, contro la Barrick, contro la cultura del denaro e del potere. La difesa dell’acqua è l’unico futuro possibile, per mantenere salde l’autodeterminazione e la vita comunitaria, fondamenta di quella fiducia costruita grazie agli sguardi trasparenti della nostra gente ed al riflesso di quest’acqua pura.
Un minuto e gridiamo “Acqua Sì, oro No!”, un minuto e chiacchieriamo di permacultura, agricoltura organica, commercio equo e solidale, Ayni, rispetto per la vita e cultura di vita. Un minuto e gioiamo, guardando un bambino tuffarsi nel fiume… Godiamo di quell’acqua che alimenta il nostro sangue, sotto il sole che illumina e riscalda il ciclo vitale, che scende dai ghiacciai eterni della cordigliera andina. Per noi, un minuto significa unirsi alla voce di una donna che prende il microfono per chiedere, senza alcuna paura e guardando dritto negli occhi dei politici e funzionari regionali: “Perché non ascoltate il clamore di un popolo che grida vogliamo vita, vogliamo acqua? Perché non la smettete di prenderci in giro? Perché non ci dite la verità? Perché non accogliete le nostre rimostranze? Siamo noi a votarvi! Quando volete questo voto ci cercate ma quando lottiamo per la nostra acqua ci voltate le spalle!” .

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martedì 28 luglio 2009

L'Unicef: i bambini immigrati in Italia stanno peggio

L'Unicef: i bambini immigrati in Italia stanno peggio

Lucia Alessi

Lo dice una ricerca dell'Unicef: la qualità della vita dei minori immigrati in Europa è peggiore di quella dei bambini europei, e in Italia questa differenza è più forte che nel resto del continente. Intanto, cento fra suore e preti lanciano l'appello «Onoriamo i poveri», contro il pacchetto sicurezza

La qualità della vita dei minori immigrati è generalmente peggiore di quella dei bambini europei, e l’Italia, poiché le migrazioni sono state più recenti, è una delle nazioni in cui la differenza si sente maggiormente. Questa la sintesi della ricerca sui minori migranti condotta dall’Unicef che sarà presentata ufficialmente il prossimo autunno, e di cui Redattore sociale dà anticipazione in attesa della presentazione ufficiale prevista per il prossimo settembre.
In Europa il 7 per cento dei bambini è figlio di genitori immigrati, e sale all’11 per cento se si considerano i figli di immigrati che sono nati in Italia. Lo studio, condotto dal professor Donald Hernandez [per l’Europa] e dai professori Letizia Mencarini, Emiliana Baldoni e Gianpiero Della Zanna [per l’Italia], ha evidenziato che i bambini e i giovani nelle famiglie immigrate nei paesi europei in generale vivono, con poche eccezioni, condizioni sfavorevoli rispetto ai coetanei eruopei. Lo svantaggio riguarda vari indicatori di benessere, inclusi la salute, l’istruzione, la povertà e l’inclusione nel mercato del lavoro.
Le motivazione principali di queste differenze, secondo il professor Hernandez, sono causate dalla «lingua e dalla cultura diversa che contribuisce a creare barriere» e dal fatto che «il generale basso livello d’istruzione dei genitori si ripercuote sui figli». Il primo passo per modificare la tendenza, spiega Hernandez, è «facilitare l’integrazione attraverso investimenti di inclusione» e, soprattutto, «è opportuno che i governi dedichino maggiori attenzioni a questo problema creando politiche ad hoc perché questi giovani migranti saranno i cittadini del futuro delle nostre nazioni».

I minori migranti in Italia, ha spiegato Letizia Mencarini, hanno un livello d’istruzione più basso rispetto ai loro coetanei italiani, vivono in case più sovraffollate e hanno i genitori con un reddito più basso e con lavori poco qualificanti. In particolare, i meno istruiti sono i marocchini, senegalesi e pachistani, mentre i più istruiti sono i giovani provenienti dall’Europa dell’Est e dall’America Latina. Meno di un migrante su quattro continua gli studi dopo le scuole superiori [contro il 40 per cento degli italiani].
Contrariamente a quanto avviene in altri paesi, quali la Francia, la Spagna o la Germania, in Italia non c’è una forte concentrazione linguistica o etnica specifica, cosa che ha sicuramente un effetto sugli sforzi di inclusione dei bambini figli di migranti nel sistema educativo.
E le cose non miglioreranno certo con l’approvazione del ddl sicurezza, ormai legge e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale lo scorso 24 luglio, e per ciò in vigore dal prossimo 8 agosto.
La nuova legge, come più volte evidenziato da diverse organizzazioni internazionali, non promette nulla di nuovo per gli stranieri in Italia e le loro famiglie.
«I bambini stranieri nati da genitori non regolarmente soggiornanti sul territorio e i bambini italiani nati da un genitore straniero non regolarmente soggiornante sul territorio non potranno più essere riconosciuti dal proprio genitore – diceva un comunicato di Save the children in occasione dell’approvazione definitiva del ddl 733 – una persona senza permesso di soggiorno non potrà più contrarre matrimonio nel territorio dello Stato, neanche in presenza di figli con cittadinanza italiana e gli adolescenti soli che provengono da altri paesi non potranno più avere la sicurezza di continuare il percorso di vita iniziato in Italia, una volta divenuti maggiorenni, vanificando investimenti personali e della società di accoglienza».
Ma oltre a attaccare direttamente i minori, la nuova legge mira soprattutto a destabilizzare totalmente la figura dello straniero in Italia, stabilendo il prolungamento del trattenimento amministrativo, una vera e propria misura di restrizione della libertà personale, a 180 giorni e la subordinazione dell’iscrizione anagrafica alla presenza di requisiti di idoneità alloggiativa, ma soprattutto l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato, che comporterà l’obbligo per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio di denunciare le persone prive di permesso di soggiorno, a cominciare da medici e presidi scolastici. «Tutte queste misure avranno un impatto estremamente negativo in termini di condizioni di vita delle famiglie e dei minori stranieri, siano o meno regolarmente soggiornanti – continua l’organizzazione – vanificando di fatto il riconoscimento dei diritti umani fondamentali di cui sono titolari in quanto persone».
Ma in tutta Italia, e non solo, continuano le proteste di tutta la società civile, che con appelli, campagne e sottoscrizioni tentano di fermare quell’attacco xenofobo e discriminatorio all’immigrazione che la nuova legge promette.
L’ultimo dei tanti appelli si chiama «Onoriamo i poveri», i cui firmatari, oltre un centinaio di suore e preti, promettono di farsi promotori di una vera e propria campagna di disobbedienza civile: «Faremo quanto è in nostro potere affinché un numero sempre crescente di cittadini metta in atto pratiche di accoglienza, di solidarietà e anche di disobbedienza pubblica perché nel tempo più breve possibile questa legge sia radicalmente cambiata». Nel documento il cosiddetto «pacchetto sicurezza» viene definito «strumentale e pretestuoso», in quanto «la legge – sottolineano i religiosi – discrimina, rifiuta e criminalizza proprio i più poveri e i più disperati. Riteniamo strumentale e pretestuosa la categoria della clandestinità loro applicata. È lo stato che rifiuta il riconoscimento. Di null’altro sono colpevoli queste persone se non di essere troppo bisognose. Per lo stato italiano oggi è questo che costituisce reato». I firmatari sostengono di riconoscersi «nell’umanità e nella dignità di tutte le persone, che vengono colpite da questa legge iniqua» e richiamano lo stato italiano al rispetto di norme e documenti violati dal «pacchetto sicurezza»: dalla Dichiarazione universale dei diritti umani alla Convenzione sullo stato dei rifugiati, dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e alla stessa Costituzione della repubblica.

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poster canvas art riproduzione quadri

Honduras, El Pais: l'esercito pronto ad accogliere Zelaya

Honduras, El Pais: l'esercito pronto ad accogliere Zelaya
L’esercito honduregno sarebbe pronto ad accogliere il ritorno del presidente Manuel Zelaya, prelevato la notte del 28 giugno e costretto a lasciare il paese. Con un comunicato su internet, ripreso questa mattina dall’edizione online del quotidiano spagnolo El Pais, l’esercito ribadisce la sua «subordinazione all’autorità civile», assumendo per la prima volta toni più ragionevoli nei confronti di Zelaya, che attualmente, per ordine del governo golpista guidato da Micheletti, non può tornare in Honduras.

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sabato 25 luglio 2009

Golpe in Honduras, Zelaya sulla via del ritorno

Golpe in Honduras, Zelaya sulla via del ritorno

www.misna.org

Da Misna. Dal Nicaragua, in testa a un corteo di automobili, accompagnato dal presidente Ortega e da ministri nicaraguensi e venezuelani, in un viaggio che gli Stati uniti hanno definito «poco prudente», il presidente Zelaya riprova a tornare in Honduras. Dove lo accoglieranno migliaia di manifestanti già diretti verso il confine

In testa a un lungo corteo di automobili, accompagnato dal presidente nicaraguense Daniel Ortega, dal ministro degli Esteri venezuelano Nicolás Maduro e da Edén Pastora, il ‘Comandante Zero’ della rivoluzione sandinista, il presidente deposto honduregno Manuel Zelaya, ha intrapreso da Managua il viaggio verso il confine del suo paese, nel secondo tentativo di rientrare in patria dopo quello fallito del 5 luglio.
Si rincorrono, da più parti, appelli al ripristino dell’ordine costituzionale nel timore che le tensioni latenti sfocino in violenza. Anche una nutrita schiera di giornalisti, riferiscono fonti di stampa sudamericane, partecipa al viaggio che il segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani [Osa] José Miguel Insulza ha giudicato «affrettato», e gli Stati uniti «poco prudente»; dall’altro lato del confine, il governo «de facto» ha imposto il coprifuoco notturno dalle 18 alle 6 lungo le zone di frontiera – non è ancora chiaro da dove Zelaya ha intenzione di rientrare – mentre i sostenitori del presidente si sono mobilitati per accoglierlo.
In un duro comunicato, il ministero della Difesa di Tegucigalpa ha avvertito che le forze armate «non potranno essere ritenute responsabili per la sicurezza di persone che per fomentare la violenza nel paese sono a rischio di essere attaccate, anche dai loro stessi compagni, con il solo proposito di trasformarli in martiri»; Zelaya da parte sua ha rivendicato il suo ruolo di comandante in capo dell’esercito e rivolto un appello ai militari, che il 28 giugno lo hanno arrestato ed espulso dal paese, esortandoli «a consegnare i loro fucili e sottomettersi all’autorità che il popolo ha scelto». Nelle ultime ore diversi dirigenti latinoamericani hanno ribadito il rischio di una guerra civile, se il governo «de facto» non accetterà la proposta del mediatore, il presidente del Costa Rica e Nobel per la pace 1987 Oscar Arias, che include il ritorno alla presidenza di Zelaya.
Secondo il presidente della Bolivia, Evo Morales, la situazione «può sfociare nella lotta armata per la superbia dei golpisti e della destra honduregna». «Se l’impero volesse» ha aggiunto Morales, Zelaya potrebbe rientrare «con la protezione degli oltre 1000 militari americani di stanza in Honduras».
Dal Paraguay, la presidente cilena Michelle Bachelet ha chiesto che le parti in causa «facciano il possibile per evitare una nuova tragedia per l’Honduras»; i ministri degli Esteri del Brasile, Celso Amorim, e del Messico, Patricia Espinosa, hanno chiesto che aumenti la pressione internazionale sul governo «de facto», nuovamente esortato, anche da Insulza, ad accogliere la proposta di Arias. Nella sua ultima Riflessione, intitolata ironicamente «Un Premio Nobel per la signora Clinton», Fidel Castro critica la mediazione di Arias, definita «la geniale idea yanqui» per «cercare di prendere tempo, consolidare il golpe e demoralizzare gli organismi internazionali che appoggiano Zelaya». Per Castro, dopo aver ignorato l’ammonimento a rinunciare al potere rivoltogli dall’Osa – che ha peraltro sospeso l’Honduras – «i golpisti si stanno già muovendo nelle sfere oligarchiche dell’America Latina, alcune delle quali, da alte posizioni statali, non arrossiscono più parlando delle loro simpatie per il golpe mentre l’imperialismo pesca nel fiume torbido dell’America Latina. Esattamente quello che desideravano, con l’iniziativa di pace, gli Stati uniti mentre acceleravano i negoziati per circondare di basi militari la patria di Bolivar».
Il commento sembra diretto in particolare al presidente della Colombia, Alvaro Uribe, che sta negoziando con la Casa Bianca l’utilizzo di basi militari da parte degli statunitensi – una questione che sta sollevando dubbi e critiche in diversi paesi della regione – e che nei giorni scorsi ha espresso pubblicamente «simpatia» per il presidente «de facto» Roberto Micheletti.

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giovedì 23 luglio 2009

Le casette di Berlusconi

Le casette di Berlusconi

Paolo Berdini


Stavolta non saranno le intercettazioni telefoniche a guastare i sonni di Berlusconi e dei suoi cari. E’ l’Istituto centrale di statistica ad aver certificato che il sistema Italia è in mano ad un ingordo gruppo di speculatori immobiliari. Poche settimane fa, l’Istat ha infatti certificato che dal 1995 [quando riprese il ciclo edilizio dopo la crisi di Tangentopoli] al 2006 sono stati costruiti oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento. Il 40 per cento di questa mostruosa quantità edilizia è costituita di case, e cioè 1 miliardo e 300 milioni di metri cubi: sono state dunque costruite 2,5 milioni di nuove abitazioni, mentre il numero delle famiglie italiane è cresciuto soltanto di poche migliaia.
Qualunque governo minimamente dignitoso sarebbe dovuto partire da questa gigantesca contraddizione: si è costruito moltissimo, eppure ci sono decine di migliaia di famiglie che vivono in stato di disagio abitativo, soprattutto nelle grandi città. La risposta sta nelle caratteristiche della fase liberista che abbiamo vissuto: non si è costruito per dare soddisfazione a chi la casa non ce l’aveva. Si è costruito “per il mercato” e basta. I finanziamenti per le case popolari sono stati prossimi allo zero, mentre per l’edilizia convenzionata [le case in cooperativa] i soldi sono stati trovati. Eccome. Non si vuole prendere atto che esiste una fascia sempre più larga [a causa della precarizzazione del lavoro] di popolazione che non ce la fa a pagare affitti fuori controllo. Tanto meno a pagare le rate di un mutuo per acquistare una casa.
Oggi il governo Berlusconi ha partorito un minuscolo topolino, il «piano casa». 550 milioni di euro in cinque anni per realizzare centomila alloggi. La cifra stanziata è ridicola: soltanto per la realizzazione del palazzo del nuoto che doveva essere inaugurato in questi giorni saranno spesi 600 milioni di euro. Per le case popolari in tutta Italia si spende meno e in cinque anni. Poi le voci che vengono da palazzo Chigi affermano che è un provvedimento destinato all’housing sociale. Una denominazione d’origine che proviene dal mondo dei costruttori italiani. Se il governo avesse voglia di documentarsi potrebbe cimentarsi con la lettura del libro di Massimo Gaggi, La valanga, in cui l’economista liberale racconta i mirabolanti esiti dell’housing sociale negli Stati Uniti: soldi pubblici che hanno gonfiato le tasche degli speculatori e hanno lasciato senza casa la povera gente. In quel paese l’housing sociale è stato abbandonato. Da noi, arretratezza e incultura la fanno ancora da padroni e dobbiamo assistere all’ennesima sceneggiata di un governo alle corde.
A proposito, sembra che verrà assegnato un aumento di cubatura a tutte le case di appuntamento che si mettano in regola, comprese quelle istituzionali. Ma non fa parte del pacchetto casa. Verrà presentato dal ministro Carfagna come emendamento al provvedimento che vieta la prostituzione.

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martedì 21 luglio 2009

Le ragioni di Carlo

Le ragioni di Carlo

Pierluigi Sullo


Quando mi capita di pensare a Carlo Giuliani è come si trattasse di un fratello minore o un figlio, comunque di una persona familiare. Non di un eroe. Quando fu ucciso, in quel luglio di otto anni fa, non se ne seppe il nome per ore, nessuno ne rivendicò la militanza, e una mano anonima concluse il sentimento comune scrivendo, nella piazza in cui un carabiniere aveva aperto il fuoco, quel «Carlo Giuliani, ragazzo». Un ragazzo, il figlio di Haidi, uno delle migliaia che a Genova fecero il primo passo verso l’impegno civile, la comunanza, la consapevolezza, la fraternità, magari imbottendosi di plastica per difesa o con una maglietta ribelle o una bandiera, un segno di inconformità, uno scarto fuori dalle righe. Erano tanto innocenti quanto lo eravamo stati noi decenni prima, nelle università e nelle strade del Sessantotto. Convinti che fosse nostro diritto cercare di cambiare il mondo, niente di meno. E come noi andarono a sbattere contro la violenza, gli spari per strada e il massacro alla Diaz e le torture a Bolzaneto e il terrore che ogni uomo in divisa avesse lui un diritto, quello di violentarti e umiliarti. Noi reagimmo allo stesso modo di chi ci faceva violenza, e perdemmo. Loro si sono passati parola, si sono sottratti al combattimento, hanno raccontato come andò veramente a Genova. Avevano ragione loro. Non hanno gridato «è vivo e lotta insieme a noi» né hanno eretto lapidi, nemmeno metaforiche. Ma quando vedo un ragazzo con una maglietta ribelle, e magari solo ironica, come ad esempio all’Aquila, durante un altro G8, quelli che organizzano forum, cucinano per tutti, vivono in comune, studiano le mosse del governo e le contromosse, allora so che l’ingiustizia che ha mandato assolti gli assassini non ha cancellato le ragioni di Carlo.

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Carceri, dati sull'indulto: un successo

Carceri, ecco i dati sull'indulto: un successo

Lucia Alessi

Una nuova ricerca svela il crollo del tasso di recidività post-indulto. Ma in risposta al decreto sicurezza, il governo Berlusconi punta sulla costruzione di nuove carceri

A fine luglio 2006 veniva approvato il provvedimento di indulto, diventato per mesi uno dei punti più controversi del già difficile Prodi II. Il 14 luglio scorso, la parlamentare Rita Bernardini ha presentato alla camera lo studio «A tre anni dal provvedimento di clemenza. Indulto: la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità», portato avanti da un gruppo di ricercatori dell’università di Torino, coordinato da Giovanni Torrente, sociologo del diritto, che così sintetizza i risultati del lavoro: «Tutti sono convinti che l’indulto sia stato un fallimento, ma lo studio dei tassi di recidiva dei ‘liberati’ ci dice l’esatto contrario: è scesa al 27 per cento, di contro al 68 per cento di quella pre-indulto».
«Si dice in giro che l’indulto sia stato inutile e che le carceri italiane sono nuovamente affollate – spiega Rita Bernardini – ma senza quel provvedimento oggi, nelle strapiene carceri italiane, ci sarebbero tra i 10 e gli 11 mila detenuti in più. Con effetti tragici».
A commissionare la ricerca è stato l’allora sottosegretario alla giustizia e attuale presidente dell’associazione «A buon diritto», Luigi Manconi: «L’indulto è stato un provvedimento criminalizzato, di cui si parlava con vergogna, che ha subìto una campagna di disinformazione sui risultati e di alterazione degli esiti. Con questi numeri, a tre anni di distanza, possiamo rovesciare da cima a fondo tutti questi luoghi comuni e dimostrare l’inequivocabile successo del provvedimento di clemenza». Dalla ricerca emerge dunque che, tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto, il tasso di recidività è del 30 per cento, mentre scende al 21 per cento tra chi ha ricevuto il beneficio mentre stava scontando la pena con misure di detenzione alternativa. Una recidività direttamente proporzionale alla «cancerizzazione», dunque: si parla del 52 per cento per chi ne aveva alle spalle cinque o più, del 18 per cento per chi era alla prima carcerazione, mentre la recidività non arriva al 12 per cento tra coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie.
«Non hanno fatto in tempo a ‘carcerizzarsi’ – ha spiegato Torrente – incastrandosi in quelle dinamiche tipiche del carcere che in genere portano a introiettare comportamenti devianti e a perdere il contatto con le logiche del mondo libero». Andando poi a osservare la nazionalità degli indultati, i recidivi italiani sono il 31 per cento, mentre quelli stranieri soltanto il 21 per cento.
La ricerca costituisce la quarta tappa di uno studio di monitoraggio che ha visto altre elaborazioni a 6, 17 e 26 mesi dal provvedimento. L’ex sottosegretario Manconi ha raccontato che, con l’arrivo del nuovo governo, «i pochi fondi necessari per portare a termine un lavoro così importante, che costituisce un piccolo elemento di verità contro un’alterazione tanto profonda dell’indulto, erano stati tagliati», costringendolo a pagare di tasca propria la fase conclusiva dello studio.
Una ricerca che, ancora una volta, rivela come fortemente negativa l’esperienza carceraria, preferendo comunque le misure alternative, ma soprattutto in contrasto con il piano di edilizia carceraria del ministro Angelino Alfano e del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, che puntano sulla costruzione di nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento, soprattutto dopo l’approvazione del decreto sicurezza che porterà in prigione molti stranieri, rei di «soggiorno irregolare».
Una situazione, quella delle carceri italiane, destinata dunque a esplodere, in base a quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, dal quale emerge che i detenuti hanno ormai raggiunto quota 63.460, ben 20 mila in più rispetto alla capienza e ben al di là della cosiddetta «capienza tollerabile». Di questi oltre il 52 per cento sono persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio e ciò rappresenta una vera e propria anomalia, una situazione insostenibile sia per i detenuti che per il personale di vigilanza.
«Noi siamo contrari all’edilizia penitenziaria per ragioni di principio – ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione – ma qualcuno dovrebbe smascherare il ministro e dire ad alta voce che il suo piano è irrealizzabile. Franco Ionta è commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, e già quando c’è un commissario c’è un fallimento. Ci dice di voler creare 17 mila posti letto entro il 2012. Primo, con questi tassi di crescita della popolazione detenuta questi numeri sono inutili. Secondo, è impossibile dal punto di vista edilizio essere così veloci. Terzo, perfino dopo aver rubato dalla cassa delle Ammende, a tutt’altro destinata, il ministro sa bene che mancano i due terzi dei fondi necessari».

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Lavori forzati e torture per gli eritrei dalla Libia

Lavori forzati e torture per gli eritrei deportati dalla Libia

Le testimonianze di alcuni eritrei respinti in Libia in questi ultimi anni dal governo italiano, a spese del governo italiano e con mezzi italiani. E ridotti in schiavitù.

L’Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c’è un albergo a Gel’alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall’Italia. Proprio così. Non chiedete spiegazioni all’ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quell’hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del paese, denominato Warsay Yeka’alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell’inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale.

I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con 172 passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte furono arrestati. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. D. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un’unità speciale dell’esercito. “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell’ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all’aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c’era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di 48 ore, sotto l’occhio discreto dell’ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di 109 esuli.

Ad attenderli all’aeroporto di Asmara c’era l’esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su dei camion militari e portati a Gel’alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel’alo, simbolo del progresso dell’economia del Paese. I prigionieri erano circa 500. C’erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell’esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall’Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l’appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 maggio del 2005. Dopodiché furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi’yah per essere reintegrati nell’esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all’oscuro del loro destino.

La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei 232 esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell’agosto del 2005. Testimone oculare della morte per stenti di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno – dice – che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un’arancia”. E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza, continua il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”.

Anche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c’è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di 109 eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame.

Quasi tutti i 3.000 eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l’Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei 76 eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei 700 che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con E., D. e M. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di 109 rifugiati furono commissionati e pagati dall’Italia, all’interno degli accordi di cooperazione contro l’immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C’era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli 84 passeggeri presero il controllo dell’aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka’alo Program

tratto da http://fortresseurope.blogspot.com

Non possiamo tacere

Non possiamo tacere

Non tutti i cattolici stanno con il Vaticano e con la Cei sulle leggi razziste del decreto sicurezza, definite da Pax Christi «Una bestemmia contraria al Vangelo di Cristo». Fra gli altri, Associazione Teresio Olivelli, Movimento internazionale della riconciliazione e Associazione chiama l’Africa lanciano l'appello all'obiezione di coscienza

La dura presa di posizione sul decreto sicurezza da parte di mons. Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio per la pastorale dei migranti, che ha definito «La criminalizzazione dei migranti il peccato originale dietro al quale va tutto il resto», ha scatenato la presa di distanza da parte del Vaticano e della Cei. Invece, ben altro è stato l’atteggiamento di un’altra parte della chiesa e dei cattolici. Pax Christi, per esempio, agli inizi di luglio ha pubblicato un breve documento che definisce il decreto «Un’offesa alla famiglia umana. Un atto eversivo della Costituzione italiana. Una bestemmia contraria al Vangelo di Cristo… Come credenti nel Dio che tutti ama e nel Vangelo di Cristo ‘nostra pace’ pensiamo che per i cristiani nessuno sia straniero e, soprattutto, che nessuno straniero sia di per sé un delinquente», scrive la segreteria di Pax Christi, che invita tutti «ad operare con urgente fermezza per respingere la deriva autoritaria e totalitaria basata sulla logica dello straniero-nemico che nasconde i veri pericoli della criminalità organizzata, della corruzione economica e politica, del degrado etico e che alimenta la paura, eccita gli animi al peggio, diffonde modelli di violenza e prepara mali più grandi. In piedi, costruttori di pace!». Un invito raccolto anche da Associazione Teresio Olivelli, Movimento internazionale della riconciliazione, Associazione chiama l’Africa, che lanciano a tutti l’appello «Non possiamo tacere» [di seguito]. E, a sostegno, allegano anche la lettera inviata al presidente della repubblica Giorgio Napolitano da Bruno Segre, bandito nel 1938, in quanto ebreo, da tutte le scuole del regno d’Italia [che pubblichiamo].

NON POSSIAMO TACERE
Nonostante tutti gli appelli alla ragionevolezza, la maggioranza blindata del Senato italiano ha approvato in via definitiva, lo scorso 2 luglio, il cosiddetto decreto sicurezza [ddl 773-B] del Governo che contiene alcune norme contrarie ad ogni regola di equità e di umanità.
La necessaria cattiveria reclamata da certi ministri e il silenzio di molti diventano aggressione contro i diritti di uomini, donne e bambini venuti nel nostro Paese in fuga da fame, guerre, carestie, in attesa di un permesso di soggiorno.
Non basta un comunicato stampa o un timido e timoroso dissenso verso una macchina pubblicitaria capace di seppellire ogni appello alla giustizia che fonda la nostra convivenza civile e pacifica.
Occorre condividere pubblicamente, come afferma Pax Christi, l´obiezione contro «la deriva autoritaria e totalitaria basata sulla logica dello straniero-nemico che nasconde i veri pericoli della criminalità organizzata, della corruzione economica e politica, del degrado etico e che alimenta la paura, eccita gli animi al peggio, diffonde modelli di violenza e prepara mali più grandi».
«Quello che si sta innescando – dichiara il Movimento internazionale della riconciliazione – è l’insicurezza del nostro futuro e della pace della nostra società. I conflitti non gestiti oggi sono destinati a diventare esplosioni di violenza domani; un diritto negato è l´innesco di desiderio di cieca rivalsa».
E questo non accade solo in alto mare quando si respingono verso campi lager coloro che chiedono aiuto o in qualche sala d’ospedale dove una madre «clandestina» non potrà riconoscere il proprio figlio, ma dentro il vissuto delle nostre città dove nelle periferie si lascia che la precarietà economica ed abitativa che si abbatte su tutti diventi il detonatore di ogni conflitto tra esclusi.
Terminato lo show del G8, credevamo che il Presidente della Repubblica Napolitano difendesse la Costituzione non firmando questa legge pericolosa, immorale ed inefficace. Così non è avvenuto, pur con tutte le serie «perplessità e preoccupazioni» espresse in una lettera inviata a Berlusconi, al suo ministro della Giustizia e ai presidenti di Camera e Senato.
Diventa pertanto urgente e necessario esprimere in maniera pubblica un dissenso e una obiezione di coscienza che fa appello ad una società, che per quanto distratta o rassegnata, che non può riconoscersi in queste norme che ledono profondamente le ragioni del diritto e della convivenza.
Associazione Teresio Olivelli, Movimento internazionale della riconciliazione, Associazione chiama l’Africa

Caro Presidente Napolitano,
sono un vecchio italiano ebreo, figlio di antifascisti, nato 79 anni fa nell’Italia fascista, bandito nel 1938 in quanto ebreo da tutte le scuole del Regno d’Italia. Sull’atto integrale di nascita a me intestato, che si conserva negli archivi dell’anagrafe di Milano, sta ancora oggi scritto a chiare lettere «di razza ebraica»: una dicitura che mi porterò appresso sino alla morte.
Memore del fascismo e delle sue aberrazioni razziste, mi permetto di rivolgermi a Lei per chiederLe di non ratificare il cosiddetto «pacchetto sicurezza» approvato in via definitiva dal Senato il 2 luglio scorso, dopo ben tre voti di fiducia imposti dal governo.
Si tratta di un provvedimento che, in palese violazione dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana, introduce nei confronti dei gruppi sociali più deboli misure persecutorie e
discriminatorie che, per la loro gravità, superano persino le mostruosità previste dalle leggi razziali del 1938. Si pensi, per citare un unico esempio, al divieto imposto alle madri immigrate irregolari di fare dichiarazioni di stato civile: un divieto che, inibendo alle genitrici il riconoscimento della prole, farà sì che i figli, sottratti alle madri che li hanno generati, vengano confiscati dallo Stato che li darà successivamente in adozione.
Per buona sorte, le garanzie previste dai Costituenti Le consentono, caro Presidente, di correggere questo e altri simili abusi. Anche in omaggio alla memoria delle migliaia di vittime italiane del razzismo nazifascista Le chiedo di non promulgare un provvedimento che, ispirato nel suo insieme a una percezione dello straniero, del “diverso”, come nemico, mina alla radice la convivenza civile, pacifica e reciprocamente proficua tra italiani e stranieri, rischiando di alterare in modo irreversibile la natura stessa della nostra Repubblica.
Milano, 7 luglio 2009
Bruno Segre

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domenica 19 luglio 2009

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino


CHI HA PRESO L'AGENDA ROSSA ----------????


Giovanni Falcone, Paolo Borsellino



 "La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni."

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sabato 18 luglio 2009

Dopo la distruzione del campo profughi di Patrasso

Dopo la distruzione del campo profughi di Patrasso

Fulvio Vassallo Paleologo www.meltingpot.org

Con una evidente sinergia, tanto in Italia che in Grecia, la guerra ai migranti si intensifica. Occorre sostenere le associazioni dei migranti in Europa e nei paesi di origine, e favorire il collegamento tra quanti i «regolari» e le persone vittime delle pratiche arbitrarie di respingimento e di espulsione, creando ponti di solidarietà

[da www.meltingpot.org] Dopo giorni di retate e di violenze della polizia ai danni dei profughi e dei minori, afghani e di altre nazionalità, asserragliati nel campo di Patrasso, il governo greco ha deciso lo sgombero e la deportazione delle ultime centinaia di persone che erano rimaste all’interno della baraccopoli che era sorta negli ultimi anni nella città greca, verso la quale l’Italia ha respinto migliaia di potenziali richiedenti asilo e minori che avrebbero avuto il diritto di essere accolti nel nostro paese. Le tragiche morti dei tanti ragazzini che per entrare nel nostro paese si erano legati sotto un Tir o si erano rinchiusi in un container sono stati presto dimenticati. Il Ministero dell’interno italiano è giunto persino a negare l’evidenza, i respingimenti alle frontiere portuali in Adriatico, anche quando i suoi uffici periferici diramavano diligentemente veline nelle quali si riportava il numero delle persone respinte con le modalità dei respingimenti collettivi vietati da tutte le convenzioni internazionali.
A Patrasso, dopo i respingimenti, il destino dei migranti, in buona parte minori, riconsegnati dai comandanti dei traghetti alla polizia greca, dopo un viaggio di ritorno in condizioni disumane, reclusi in celle surriscaldate vicino alla sala macchine, era segnato da tempo. Giorni di detenzione in un container, esposti a gravissime violenze fisiche e psichiche della polizia, e poi la clandestinità coatta nel campo profughi, per tentare ancora una volta, appena possibile, la fuga verso l’Italia e l’Europa. Dopo il 30 maggio di quest’anno il governo greco aveva deciso di sgomberare il campo di Patrasso, ed aveva approvato una legge che consente respingimenti ancora più sommari, concludendo nuovi accordi informali con la Turchia per dare effettività ai provvedimenti di allontanamento forzato. Per un mese, tutte le sere, la polizia entrava nel campo e rastrellava sistematicamente decine di rifugiati e di minori, avviando per alcuni di loro le pratiche di espulsione verso la Turchia, e quindi verso l’Afghanistan o altri paesi ad alto rischio come la Somalia.

Alla fine di giugno, sotto la spinta di una opinione pubblica sempre più xenofoba e con l’avallo dei principali paesi europei, l’Italia in testa, il governo greco decideva la «soluzione finale», l’annientamento del campo di Patrasso e di quanti si trovavano ancora a resistere al suo interno. L’operazione scattava domenica 12 luglio. Il campo veniva circondato e quanti non erano riusciti a fuggire venivano arrestati dalla polizia.
Secondo le prime testimonianze quattro cittadini greci che si trovavano nei pressi del campo circondato dalle forze di polizia per esprimere solidarietà sono stati immediatamente arrestati. Subito dopo la polizia è entrata nel campo dando il via con i bulldozer alla distruzione delle baracche nelle quali si trovavano ancora documenti, vestiti e generi di prima necessità che i migranti non hanno potuto portare nei centri di detenzione e nelle carceri nei quali venivano condotti. Qualcuno, probabilmente con l’avallo della polizia, ha poi appiccato il fuoco a quanto restava del campo, e le ultime baracche che non erano state distrutte dall’incendio sono state abbattute dalla polizia.
Nel corso di questa ultima operazione alcuni dei migranti che avevano presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo dopo essere stati respinti alle frontiere portuali dell’Adriatico [Venezia, Ancona, Bari, Brindisi], per i quali la Corte aveva intimato alla Grecia di sospendere l’applicazione delle misure di allontanamento forzato, sono stati arrestati e rinchiusi in carcere ed in un centro di detenzione per minori. Altri ricorrenti alla Corte di Strasburgo che si trovavano ancora a Patrasso, nei giorni precedenti erano stati arrestati durante i rastrellamenti notturni condotti con estrema violenza dalla polizia greca allo scopo di terrorizzare quanti resistevano ancora all’interno del campo, e si ha prova certa che alcuni di loro erano stati deportati in Turchia ed in Afghanistan, malgrado l’intimazione di sospendere gli allontanamenti forzati rivolta dalla Corte Europea alla Grecia.
Chiediamo ancora una volta un intervento urgente della Corte Europea ed una severa immediata condanna della Grecia e dell’Italia per gli abusi commessi alle frontiere marittime ed all’interno del loro territorio, ai danni di migranti irregolari, di potenziali richiedenti asilo, di donne e di minori, anche se i governi e le loro forze di polizia riusciranno a fare scomparire coloro che hanno proposto ricorso, oppure anche se costoro, come si è già verificato in passato, saranno costretti a ritrattare le loro denuncie per effetto delle minacce rivolte loro. Le indagini per il contrasto della cd. «immigrazione clandestina» non possono continuare a cancellare i diritti e la stessa esistenza delle vittime di questo traffico. Queste stesse indagini potrebbero risultare assai più efficaci se si istituisse un sistema legale di accoglienza e se si rispettassero sempre i diritti fondamentali delle persone, diritti che vanno riconosciuti a tutti, anche a coloro che sono costretti a tentare la via dell’ingresso irregolare, per la mancanza di canali legali di ingresso.

Gli arresti e le deportazioni, la distruzione sistematica dei documenti e dei beni personali, la dispersione dei testimoni e le intimidazioni nei confronti delle associazioni umanitarie e degli avvocati, sono stati l’unica risposta che il governo greco è stato capace di fornire alle richieste provenienti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per un trattamento dei potenziali richiedenti asilo e dei minori conforme agli obblighi internazionali di protezione derivanti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
Su tutto questo è calata una censura totale da parte della stampa italiana malgrado da giorni sia reperibile sul sito della BBC un video che mostra la demolizione e l’incendio del campo di Patrasso.
Medici Senza Frontiere ha espresso profonda preoccupazione per coloro che sono stati arrestati. Chiedendo alle autorità greche di assicurare condizioni di vita dignitose e assistenza medica per queste persone.
Medici senza frontiere ha ribadito la necessità che tutti i migranti e i richiedenti asilo arrestati a Patrasso «vengano trattati con dignità e che le autorità rispettino le convenzioni internazionali ed europee a protezione dei migranti e dei richiedenti asilo, nonché le direttive europee che regolamentano il rispetto degli standard minimi di accoglienza dei richiedenti asilo».
Quanto avvenuto a Patrasso si colloca in sintonia con l’inasprimento delle politiche comunitarie e nazionali nei confronti degli immigrati irregolari, costretti alla clandestinità dal diniego sistematico dell’accesso alle procedure di asilo, che in Grecia sono precluse nel 99 per cento dei casi. Piuttosto che aprire una procedura di infrazione nei confronti della Grecia per la mancata applicazione delle direttive comunitarie in materia di asilo e di protezione internazionale, piuttosto che denunciare le gravissime violazioni delle convenzioni internazionali che tutelano i minori da parte della polizia greca, gli organi comunitari, fino alla recente proposta del presidente della Commissione Barrot, insistono con forza sempre maggiore sulla necessità di inasprire le politiche di allontanamento forzato, anche con un maggior ricorso agli accordi bilaterali ed ai pattugliamenti congiunti dell’agenzia per il controllo delle frontiere esterne Frontex.
Con una evidente sinergia, tanto in Italia che in Grecia, la guerra ai migranti si intensifica sul fronte interno con provvedimenti come i pacchetti sicurezza che criminalizzano i migranti in situazione di irregolarità e creano le premesse per gli arresti, la detenzione generalizzata, anche ai danni dei minori, e la deportazioni violente verso paesi nei quali i migranti sono a rischio di subire trattamenti inumani e degradanti vietati dall’art.3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalla Convenzione delle Nazioni unite per la prevenzione della tortura. Va denunciato l’accordo bilaterale di riammissione tra Italia e Grecia firmato nel 1999, che pone le premesse per i respingimenti sommari verso Patrasso e per la successiva violazione dei diritti fondamentali di quanti e del diritto alla protezione internazionali di quanti vengono riconsegnati alla polizia greca.

Alla Libia e alla Turchia si assegna, dietro lauto compenso, il ruolo di controllori e di gendarmi delle frontiere esterne dell’Unione Europea, ed in questi paesi un numero sempre più elevato di migranti, tra i quali anche donne e minori, rischiano abusi di ogni genere e successivi respingimenti verso i paesi di origine, nei quali potrebbero trovare carcere e torture che gli stati europei preferiscono ignorare continuando ad intrattenere rapporti politici ed economici con paesi governati da regimi dittatoriali Sono questi rapporti, come dimostra il caso del Patto di amicizia tra Italia e Libia, che stanno consentendo il respingimento sistematico dei migranti verso paesi che non garantiscono neppure una applicazione effettiva della Convenzione di Ginevra a protezione dei rifugiati.
I governi italiano e greco, sostenuti anche dal governo spagnolo, tra breve alla presidenza dell’Unione Europea, continuano a praticare la logica dell’annientamento e dei respingimenti informali, anche allo scopo di cancellare gli abusi che sono stati commessi ai danni dei migranti dalle forze di polizia, e l’opinione pubblica assiste in silenzio, ed anzi in qualche occasione esprime aperto sostegno a queste pratiche che riportano l’Europa indietro nel tempo, al tempo delle stragi e dei campi di internamento dei regimi nazifascisti.
Mentre i governi europei sfruttano la ideologia della sicurezza per incassare consenso elettorale e costruire la figura del migrante come nemico interno dei ceti più deboli sopraffatti da una crisi che ha invece cause profonde interne al sistema economico dominante, occorre rivendicare [e praticare con strumenti di autorganizzazione] la sicurezza per i migranti e per i soggetti più vulnerabili come le donne, i minori, i richiedenti asilo. Occorre difendere i migranti dai governi e dalle parti più xenofobe della popolazione europea. E’ questa oggi la vera emergenza sicurezza.

Occorre soprattutto sostenere le associazioni dei migranti in Europa e nei paesi di origine, e favorire un collegamento diretto tra quanti sono regolarmente soggiornanti e le persone vittime delle pratiche arbitrarie di respingimento e di espulsione, creando ponti di solidarietà e di comunicazione che consentano di documentare gli abusi commessi dalle forze di polizia, malgrado tutti i rastrellamenti e tutte le distruzioni dei beni personali dei profughi.
Non si può consentire ancora che le operazioni di espulsione collettiva dei migranti da un determinato paese impediscano persino l’esercizio effettivo del diritto di ricorso davanti alle corti internazionali, ultimo strumento ancora rimasto per affermare lo stato di diritto in Europa e le garanzie democratiche per tutti, e non solo per i cittadini, o per una parte soltanto anche tra coloro che godono della cittadinanza.
Attendiamo dalle organizzazioni umanitarie e dall’Alto Commissariato delle nazioni Unite per i rifugiati un impegno ancora più forte per garantire i diritti dei potenziali richiedenti asilo e dei minori nei paesi ai confini esterni dell’Unione Europea, come la Grecia, Malta, la Spagna e l’Italia, e soprattutto speriamo che non si prestino ai tentativi di strumentalizzazione che si nascondono dietro la proposta, di recente ribadita in ambito comunitario, della esternalizzazione delle procedure di asilo. Una proposta che avrebbe solo l’effetto di ridurre l’accesso effettivo alle procedure di asilo e di protezione internazionale, oltre che di legittimare le pratiche più violente ed arbitrarie di respingimento e di detenzione, quelle pratiche indegne di un paese civile, che l’Italia sta praticando in collaborazione con la dittatura libica e che la Grecia sta adesso sperimentando con il regime turco.
Patrasso, ma anche Venezia ed Ancona, come Tripoli o Misurata in Libia sono più che luoghi simbolo, sono le frontiere dei diritti, luoghi nei quali con la cancellazione dei diritti dei migranti, spesso la cancellazione, la eliminazione dei loro corpi, con il prevalere della logica dell’annientamento, rischia di naufragare definitivamente qualunque residua possibilità che l’Europa rimanga ancora fedele a quei principi di democrazia e di solidarietà che ne hanno improntato la storia dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale.
Tollerare passivamente la logica dell’internamento e della deportazioni dei migranti, una logica che sta prevalendo sia in Italia che in Grecia, come in Spagna o a Malta, come alle tante frontiere orientali delle quali in Italia nessuno parla, significa tollerare l’imbarbarimento della nostra convivenza civile e contribuire al dilagare di quella guerra interna «permanente» che costituisce una condizione per il mantenimento dello sfruttamento e della divisione dei ceti più deboli della popolazione italiana a scapito degli ultimi arrivati, e anche a scapito di quelli che neppure sono riusciti ad entrare nella «civile» Europa.

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Condannati i killer di Abba

Condannati i killer di Abba. La famiglia: «giustizia a metà»

Lucia Alessi

Condannati a 15 anni e quattro mesi i due baristi, padre e figlio, che il 14 settembre scorso uccisero Abdoul Guiebre, detto Abba, il ragazzo originario del Burkina Faso, per aver rubato un pacco di biscotti . Ma non viene riconosciuta l'aggravante razzista

Sono stati condannati a 15 anni e quattro mesi Fausto e Daniele Cristofoli, 51 e 31 anni, padre e figlio e titolari del bar Shining di via Zuretti a Milano. Una condanna lampo grazie al rito abbreviato, che dà diritto allo sconto di un terzo della pena – che per questo reato va dai 21 ai 24 anni – che dopo soli dieci mesi incastra i due responsabili dell’omicidio di Abdoul Guiebre, «Abba» per gli amici, il 19enne italiano originario del Burkina Faso ucciso lo scorso 14 settembre a sprangate al grido di «sporco negro». Il gup Nicola Clivio ha accolto le richieste del pm Roberta Brera, che però non ha mai contestato l´aggravante dell´odio razziale, nonostante le frasi razziste siano state confermate dagli imputati stessi, considerando invece decisivi, come causa scatenante dell´aggressione, i futili motivi, ovvero il furto dei biscotti. E questa è stata la linea tenuta fino a ieri, quando il pm ha chiesto per i due una pena di 16 anni e otto mesi, senza distinguere tra il comportamento del figlio [esecutore materiale dell´omicidio] e la condotta del padre [che sarebbe stato il promotore della spedizione punitiva e avrebbe incoraggiato il figlio mentre si stava accanendo su Abdoul]. Il gup ha concesso ai due baristi soltanto le attenuanti generiche e un piccolo sconto, oltre a quello previsto dal rito abbreviato, per il buon atteggiamento processuale e l’offerta di risarcimento economico di 100mila euro alla famiglia di Abdoul, arrivando a vendere il loro appartamento. L´offerta è stata respinta dalla famiglia che ieri, in compenso, si è vista riconoscere una provvisionale di 275mila euro. Ma i soldi non placano la rabbia degli amici e dei familiari di Abdoul. «Mio fratello è stato ucciso per razzismo – ha detto una sorella – meritavano l´ergastolo».
«È stata fatta giustizia, ma solo in parte, perché la pena poteva e doveva essere più alta – ha detto Hassane Guibre, padre del giovane ucciso -. Dei soldi non mi importa, non penso al risarcimento che non mi restituisce mio figlio, ma al mio dolore». Non dà però colpe ai giudici: «Loro hanno fatto più di quel che potevano. È la legge italiana che è sbagliata: dopo quello che hanno fatto a mio figlio, con tutti i precedenti che avevano [il padre per violenza sessuale, il figlio per rapina impropria, ndr], non se la possono cavare così».

E c´è chi già pensa a una manifestazione di protesta subito dopo l’estate, quando cadrà anche il primo anniversario della morte di Abba. «Stiamo valutando insieme alla famiglia – dice Rossella, una degli amici di Abba che un anno fa hanno dato vita a un blog per ricordare il loro amico [http://abbavive.blogspot.com] -. Anche loro hanno voglia di continuare a manifestare, per Abba e per un tema come quello del razzismo che a Milano, purtroppo, è una partita ancora aperta».
Ciò che più scotta negli animi di parenti e amici è il non riconoscimento dell’aggravante per razzismo: «sappiamo tutti che se si fosse trattato di ragazzi ‘bianchi’ non sarebbe mai successa una cosa del genere – continua un altro amico – Il problema è un sostrato culturale, un razzismo istituzionale che legittima atti di violenza del genere, il dato è innanzitutto questo. Da parte nostra continueremo a stare accanto alla famiglia e dare voce al problema».
E il pensiero, per tutti, corre a quel terribile 14 settembre, quando Abba e altri tre amici, reduci da una serata in giro per Milano, si affacciano allo Shining e andando via rubano un pacco di Ringo. I proprietari se ne accorgono e inizia l’inseguimento con il chiosco mobile, finchè non li raggiungono, e dopo il primo colpo inferto dal padre Fausto con una mazza di legno, Abba perde l´equilibrio e cade per terra. Daniele allora, il figlio, pensa bene di prendere l’asta uncinata che usavano per abbassare la saracinesca del bar, colpendo Abba, già a terra, alla testa per ben tre volte, assestando anche il colpo fatale alla tempia, che ha ucciso il ragazzo nel giro di poche ore.

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Campionati di nuoto: stelle mondiali e impianti abusivi

Campionati di nuoto: tra stelle mondiali e impianti abusivi
Qui Roma e Lazio
[17 Luglio 2009]
Iniziano oggi i Mondiali di nuoto che per due settimane faranno dimenticare le inchieste e gli illeciti relativi agli impianti. 2600 atleti in rappresentanza di 185 nazioni. Il sindaco Alemanno brinda al successo, ma ringrazia il governo Berlusconi per l'ennesima sanatoria.

Lo spettacolo, per ora, è assicurato. Le stelle del nuoto mondiale ruberanno la scena, almeno per due settimane, alle vicende politiche e giudiziarie che gravano sui mondiali di nuoto, che si aprono ufficialmente oggi nell’impianto del Foro italico. Tanti i nomi famosi in gara, dal fenomeno statunitense Michael Phelps al francese Alain Bernard, dai nostri Filippo Magnini, Federica Pellegrini e Tania Cagnotto fino alla 42enne americana Dana Torres, ancora pronta a gareggiare con atleti più giovani di venti anni. I numeri parlano da soli: 2556 atleti in rappresentanza di 185 nazioni. Altri numeri, invece, poco digeribili dall’amministrazione comunale e dalla Fin [Federazione italiana nuoto], descrivono il percorso a ostacoli che ha riguardato la costruzione degli impianti di nuoto. Pietralata, Valco San Paolo e Polo natatorio di Ostia sono le tre strutture comunali [ultimate malamente solo pochi giorni fai] coinvolte nelle linchieste della magistratura per violazione delle normative urbanistiche. Resta incompiuto, invece, l’impianto di Tor Vergata. Il mega progetto dell’architetto Calatrava [38 ettari di impianti, sei piscine, palestre, foresterie, ristori, campi da calcio, pista di atletica, un palazzetto dello sport da 13mila posti] è stato bloccato per mancanza di fondi. A Valco San Paolo, mancano le previste foresterie, mentre a Ostia non tutti i lavori sono stati completati.

La vicenda del polo natatorio di Ostia, 60 mila metri cubi che si estendono per oltre 400 metri fronte mare, rappresenta lo scandalo fra gli scandali. Si tratta dell’unico impianto pubblico previsto nel municipio XIII, tutti gli altri [Le Cupole in via Bonichi a San Giorgio di Acilia, l’Eschilo 1 in via Eschilo all’Axa e Babel in via Traetta all’Infernetto] sono privati ma hanno ricevuto fondi pubblici per l’ampliamento. Solo nel municipio XIII [250 mila abitanti], per i mondiali di nuoto, sono sorte quattro nuove strutture, in un territorio già servito da 32 piscine omologate, sia private che pubbliche. Il polo natatorio, guarda caso, sorge proprio davanti allo stabilimento Le Dune, di proprietà dell’ingegner Renato Papagni, presidente dell’Assobalneari locale, legato a Confindustria, membro della Fin, progettista dell’impianto di Ostia, di Valco San Paolo e di Pietralata e uomo di fiducia del presidente della Federnuoto, Paolo Barrelli. Quest’ultimo, senatore berlusconiano e candidato alla presidenza del Coni, è a sua volta legato politicamente a Maurizio Perazzolo, ex consigliere del municipio XIII di Forza Italia, imprenditore e presidente del consorzio Le Cupole di Acilia. Perazzolo, che per l’ampliamento del suo impianto sportivo ha ricevuto un finanziamento di 3 milioni di euro, è riuscito anche a realizzare una struttura nuova di zecca al Torrino, ampliata in fase successiva grazie all’intervento di Claudio Rinaldi, commissario ai mondiali di nuoto 2009 e indagato nell’inchiesta sugli abusi edilizi.

L’impianto di Ostia è costato 26 milioni di euro [a fronte dei 13 stanziati inizialmente] per cinque giorni di gare a mare. Nel corso dell’inaugurazione, avvenuta a cantiere ancora aperto, ai giornalisti sono state fatte vedere solo due piscine e due stanze della foresteria. Tutto il resto, gli spogliatoi, gli uffici, la cucina, e la zona notte, era ancora incompleto. Gli atleti, per questo, si sono allenati in alcune delle 32 piscine omologate già presenti sul territorio e hanno dormito in altri alberghi tra Ostia e Roma. Dopo i Mondiali l’impianto diventerà un centro federale aperto solo a competizioni agonistiche e a eventi Fin. La foresteria, invece, un albergo che una delibera comunale ha stabilito di dare in gestione esclusivamente ai membri della Fin, di cui, guarda caso, Papagni fa parte. Uno scenario di illegalità e illeciti su cui è calato il sipario del governo Berlusconi che ha imposto una sanatoria preventiva – accolta con entusiasmo dal sindaco Alemanno – che ha allargato a dismisura i poteri del commissario straordinario Giovanni Malagò. Meno male che Silvio c’è.

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venerdì 17 luglio 2009

Emigrazione dal sud Italia: un rubinetto mai chiuso

Emigrazione dal sud Italia: un rubinetto mai chiuso

Lucia Alessi

L'ultimo rapporto della Svimez denuncia un sud Italia sempre più povero, da cui i giovani continuano a fuggire. E un nuovo primato: il paese con il tasso di disoccupazione giovanile più alto d'Europa

Quattro anni fa, il primo allarme: «L’emigrazione dal sud Italia torna ai livelli degli anni ‘60».
Il «Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2009» presentato oggi dalla Svimez, osserva invece il fenomeno nell’arco degli ultimi dieci anni, delineando un quadro a tinte fosche.
Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone risultano infatti aver abbandonato il Mezzogiorno.
«Caso unico in Europa – sottolinea l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – l’Italia continua a presentarsi come un paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni». I posti di lavoro del Mezzogiorno, in particolare, «sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione». Così nel 2008 il Sud ha perso oltre 122mila residenti a favore del Centro-nord, a fronte di un rientro di circa 60mila persone. Oltre l’87 per cento delle partenze ha origine in tre regioni: Campania [25mila], Puglia [12.200], Sicilia [11.600].
Sono stati invece 173mila gli occupati residenti nel Sud, ma con un posto di lavoro al Centro-nord o all’estero, 23mila in più del 2007 [15,3 per cento]. Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a casa nel weekend o un paio di volte al mese. Per lo più giovani e con un livello di studio medio-alto: l’80 per cento ha meno di 45 anni e quasi il 50 per cento svolge professioni di livello elevato [il 24 per cento è laureato]. Spesso sono maschi, single, dipendenti full-time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari – secondo il rapporto – sono Lombardia, Emilia Romagna e Lazio. È da segnalare però la crescita dei pendolari meridionali verso altre province del Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine: 60mila nel 2008 [erano 24mila nel 2007].
Il fenomeno, quel che è peggio, interessa soprattutto le fasce di giovanissimi, che già nella scelta dell’università si riversano sulle grandi città del Centro-nord, rifiutando un curriculum studiorum «locale». Rispetto ai primi anni 2000, infatti, sono aumentati i giovani che dal sud si trasferiscono al Centro-nord subito dopo il diploma, che si laureano e poi cercano lavoro lì, mentre sono diminuiti i laureati negli atenei meridionali in partenza in cerca di lavoro dopo la laurea.
In vistosa crescita anche le partenze dei laureati «eccellenti»: nel 2004 partiva il 25 per cento dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38 per cento. La mobilità geografica Sud-Nord – conclude lo Svimez – permette una mobilità sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-nord vanno incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il 50 per cento dei giovani «immobili al Sud» non arriva a 1.000 euro al mese, mentre il 63 per cento di chi è partito dopo la laurea guadagna tra 1.000 e 1.500 euro e oltre il 16 per cento più di 1.500 euro.

In calo il lavoro sommerso, ma al sud un lavoratore su 5 è ancora in nero. Durante il 2008 al Sud ci sono stati 22mila lavoratori irregolari in meno, «per effetto anche della campagna di regolarizzazione degli stranieri, soprattutto nel settore edile». In Italia – spiega il rapporto – i lavoratori in nero sono stimati in 2,943 milioni nel 2008, ovvero l’11,8 per cento del totale. Gli occupati sono cresciuti al Centro-nord di 217mila unità, mentre sono scesi di 34mila nel Sud.

Dati che non dovrebbero sorprendere, a giudicare dalle accese polemiche che anche quest’anno hanno accompagnato numerosi provvedimenti, a partire dalla manovra finanziaria dell’estate 2008, che dall’inizio della legislatura riducevano la dotazione dei Fondi per le aree sottoutilizzate [Fas] per il periodo 2007-2013 di ben 13.269,5 milioni di euro.

«Il quadro – conclude lo Svimez – diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche degli altri Paesi europei». In dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizioni comprese tra la 165esima e la 200esima su un totale di 208. Un processo «in decisa controtendenza con le altre aree deboli Ue, che sono cresciute mediamente del 3 per cento annuo dal 1999 al 2005, mentre il Sud si è fermato a 0,3 per cento».
«All’Italia – conclude lo Svimez – spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2008 solo il 17 per cento dei giovani meridionali in età 15-24anni ha lavorato, contro il 30 per cento del Centro-nord».

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Gli abusi di Piombo fuso raccontati dai soldati

Gli abusi di Piombo fuso raccontati dai soldati

L'associazione israeliana Breaking the silence ha pubblicato un rapporto con le testimonianze dei soldati impegnati nell'operazione Piombo fuso. I militari tornano sugli abusi commessi nel corso della guerra del gennaio 2008.

«Prima sparare e poi preoccuparsi»: ecco il principio sul quale si è retta l’operazione israeliana Piombo fuso, la guerra lampo che nella Striscia di Gaza tra dicembre e gennaio 2008 ha provocato la morte di 1400 palestinesi e 13 israeliani. Ora a dirlo sono gli stessi soldati dell’esercito israeliano. Le loro testimonianze sono state raccolte da un’organizzazione creata dai soldati, Shovrim Shtika [Rompere il silenzio], che ha pubblicato un rapporto con il racconto di ventisei soldati che questa guerra l’hanno fatta. E’ l’ennesimo colpo alla Israeli defense force dopo le accuse di violazioni avanzate da organizzazioni come Amnesty International e Human rights watch: l’esercito ha subito negato le accuse. Il quotidiano Haaretz ha pubblicato oggi alcuni stralci del rapporto messo a punto dall’organizzazione ‘Rompere il silenzio’ che ha raccolto le testimonianze dei soldati impegnati nell’offensiva del gennaio 2008.

Secondo il racconto ripetuto da un sergente israeliano al reporter di Haaretz, che ha anche pubblicato ampi stralci del rapporto, i palestinesi venivano spesso mandati dentro le abitazioni per verificare se ci fosse qualcuno prima dell’irruzione dei militari. Una pratica – chiamata ‘procedura del vicino’ – già impiegata durante la seconda Intifada e bocciata come inumana dalla Corte suprema israeliana nel 2005. In un episodio riferito dal sergente, gli israeliani avevano localizzato tre miliziani palestinesi asserragliati in un casa. Era stato chiesto l’intervento degli elicotteri che avevano bombardato l’abitazione. Per verificare che i miliziani fossero morti, un civile era stato costretto a entrare nell’edificio pericolante. Ne era uscito dicendo che i tre erano ancora vivi e così l’esercito aveva ordinato un nuovo raid aereo. Il palestinese era stato costretto a entrare di nuovo nell’edificio e ne era uscito dicendo che due erano morti ma il terzo era ancora vivo. Era stato allora chiesto l’intervento di un bulldozer che aveva iniziato a demolire la casa. Solo allora il miliziano si era deciso ad arrendersi e a consegnarsi ai soldati.
Le testimonianze dei soldati concordano: l’ordine del Comando era di minimizzare le perdite tra i militari per non perdere il sostegno dell’opinione pubblica. «Meglio colpire un civile che esitare a sparare su un nemico – era la direttiva – nell’incertezza, uccidete. Nella guerriglia urbana chiunque è tuo nemico e non ci sono innocenti».

A marzo, altre testimonianze di soldati su abusi contro i civili palestinesi erano state rese pubbliche ma la loro affidabilità era stata contestata dai vertici dell’esercito. Anche questa volta, il commento dell’esercito non si è fatto aspettare. «Dalle testimonianze pubblicate e dalle indagini condotte dall’Idf, appare chiaro che i soldati hanno operato nel rispetto del diritto internazionale», dicono. Secondo fonti palestinesi, tra le 1.417 vittime dell’operazione Piombo fuso ci furono 926 civili, secondo l’esercito israeliano il bilancio fu di 1.166 morti tra cui 295 civili.esercito. Per l’esercito israeliano, «anche ora gran parte di quanto detto si basa su voci e testimonianze indirette, senza che sia possibile verificare i dettagli in modo da confermare o smentire l’accaduto». Per Asa Kasher, autore del codice etico dell’esercito, «l’organizzazione Shovrim Shtika intende difendere i valori morali mentre ne fa un’agenda politica: andare nel verso delle accuse palestinesi. Quando i soldati
dicono che potevano sparare a volontà: o hanno agito seguendo la propria volontà e sono da condannare, o non hanno rifiutato gli ordini dei loro superiori, e sono ugualmente da condannare. I soldati hanno l’obbligo legale di rifiutare ordini illegali, di sparare su innocenti. […] E’ molto facile, mesi dopo i fatti, scagliare la pietra all’esercito prendendo i media a testimonio».
«Ci sono abusi in ogni guerra, ma quello che ci turba è di vedere come, nella sua operazione a Gaza, l’esercito israeliano sembra aver cambiato i suoi concetti etici senza dircelo. L’uso di tattiche di guerra contro i civili palestinesi è ingiustificabile», commenta Yehuda Shaul, direttore di Shovrim Shtika.

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mercoledì 15 luglio 2009

La guerra afghana parla anche italiano

La guerra afghana parla anche italiano

Un paracadutista della Folgore è stato ucciso e altri tre sono rimasti feriti in un attacco della guerriglia nella provincia di Farah. Il governo italiano si prepara a riferire in Parlamento. Un elicottero con sei contractors è stato abbattuto vicino la base militare di Sangin.

Il nome di Alessandro Di Lisio, 25 anni, di Campobasso, caporal maggiore della Folgore si aggiunge all’elenco di altri 13 soldati italiani uccisi in Afghanistan. Di Lisio era di pattuglia con altri parà nella provincia di Farah, una delle due province di competenza del Comando regionale ovest a guida italiana. Il loro mezzo è stato investito dall’esplosione di una bomba. Di Lisio è morto, gli altri tre sono rimasti feriti. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita, secondo quanto fa sapere lo Stato maggiore della difesa.
La ricostruzione dei fatti operata dalla difesa dice che la colonna di mezzi blindati della Folgore e del primo reggimento bersaglieri era diretta a una caserma dell’esercito afghano nella provincia di Farah. Da quella postazione, i soldati del malandato esercito nazionale afghano avevano chiesto l’intervento delle forze internazionali, perché sotto continuo attacco della guerriglia. E’ toccato agli italiani, che ormai da mesi, nel settore di loro competenza e anche oltre, partecipano alle operazioni di combattimento contro i guerriglieri talebani. Meno di un mese fa, il quotidiano spagnolo El Pais aveva pubblicato sul suo sito online un reportage video su una battaglia condotta da soldati italiani, spagnoli e statunitensi contro i guerriglieri. Gli italiani avevano impiegato anche gli elicotteri Mangusta.
Alle ordinarie reazioni di cordoglio per le vittime dell’attacco e per i loro familari espresse dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, così come da tutte le forze politiche, stavolta si aggiunge la richiesta, formulata dalle opposizioni, che il governo riferisca in aula sulla situazione in Afghanistan.
Dalla primavera in poi, infatti, nel paese è in corso una vera escalation militare, anticipata dall’arrivo dei primi rinforzi statunitensi e proseguita, in questi giorni, con due offensive contemporanee, entrambe nella provincia di Helmand, la più turbolenta del paese. La prima offensiva è quella dei marines, battezzata Khanjal [pugnale] in pushto e River Liberty per la stampa Usa. La seconda è l’operazione Panter’s claw lanciata dalle truppe britanniche. Ai soldati di sua maestà, l’offensiva è costata otto caduti nelle ultime 24 ore, le perdite più pesanti da molti mesi a questa parte. E il governo laburista di Gordon Brown è subito finito al centro delle critiche della stampa britannica e dell’opposizione conservatrice e liberaldemocratica per il modo in cui la guerra afgana [che risveglia memorie di ben altre disfatte dell’esercito britannico] viene condotta.
Non è chiaro quale sia l’idea della situazione che si è fatto il governo italiano, che brilla per retorica e avarizia di analisi rispetto al contesto afghano. Il ministro della difesa Ignazio La Russa ha parlato, subito dopo la notizia della morte del caporale Di Lisio, di «rivedere equipaggiamenti e mezzi», come se ciò bastasse. L’escalation di queste settimane era peraltro ampiamente annunciata. Lo stesso La Russa, poche settimane fa, aveva detto che il rischio per le truppe italiane era destinato ad aumentare. Nell’ultimo vertice della Nato, ad aprile, era stato deciso di aumentare le truppe in vista delle elezioni politiche afghane, previste per agosto. E Barack Obama, nel suo discorso dal Cairo, aveva detto che l’Afghanistan rimane un teatro di impegno fondamentale per le truppe statunitensi, che saranno anzi aumentate man mano che il disimpegno dall’Iraq procede.
Non si sentono ancora gli effetti della nuova strategia della Nato, se non per il numero dei caduti. Agli otto soldati britannici e al parà italiano si devono aggiungere anche sei contractors civili, che viaggiavano a bordo di un elicottero precipitato vicino la base militare di Sangin, nella provincia di Helmand. L’elicottero, secondo la ricostruzione delle agenzie di stampa internazionali, è stato abbattuto. I civili a bordo sono tutti morti.

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In Honduras, dopo il gople, lo stallo politico

In Honduras, dopo il gople, lo stallo politico

Marica Di Pierri Associazione A Sud

Il presidente deposto Manuel Zelaya ha lanciato un ultimatumo al governo golpista di Micheletti. La mediazione internaziona, rafforzata dalle prese di posizione dell'Osa e dell'Onu non riesce a ottenere che i golpisti rinuncino al potere.

Nonostante i tentativi di negoziazione del presidente del Costa Rica – e premio Nobel per la Pace – Oscar Arias e le raccomandazioni della comunità internazionale che ha auspicato l’immediato reintegro del deposto presidente Manuel Zelaya alla guida del piccolo paese centroamericano, l’Honduras è ancora lungi dall’essere pacificato.
A più di due settimane dal Golpe, continuano in Honduras le manifestazioni – quasi quotidiane – contro il governo de facto di Roberto Micheletti, insediatosi al potere dopo il golpe civico-militare dello scorso 28 giugno che ha spodestato il presidente costituzionalmente eletto.
Martedì mattina Manuel Zelaya ha dato un ultimatum al governo golpista affermando che «se al più tardi durante la prossima riunione del tavolo di mediazione che si riunirà a San Josè [capitale del Costa Rica, ndr] non si troverà il modo di reintegrare il legittimo governo alla guida del paese, daremo per fallita la mediazione di Oscar Arias e cercheremo altre strade per restaurare la democrazia in Honduras». Zelaya ha aggiunto che se il governo de facto di Micheletti continuerà a rifiutarsi di adempiere alle raccomandazioni dell’Organizzazione degli stati americani [Osa] e delle Nazioni unite non c’è alra via che quella di andare oltre la mediazione e tentare altre strade.
Zelaya ha anche criticato l’atteggiamento del governo golpista parlando di «pratiche volte a ritardare il processo di mediazione e di repressione sistematica contro la popolazione civile», compiuta ad esempio «attraverso la violazione del diritto alla libera circolazione e alla libertà di espressione».
La dichiarazione di Zelaya è arrivata dopo l’annuncio di Micheletti, che si era detto disponibile a concedere un’amnistia al presidente deposto, nel caso questi accettasse di presentarsi al cospetto delle autorità giudiziarie honduregne. Micheletti ha contemporaneamente escluso ogni possibilità che Zelaya venga reinsediato alla presidenza del paese.
Nonostante tali dichiarazioni, la comunità internazionale continua coesa nel non voler riconoscere il nuovo governo ed esige l’immediato reintegro di Zelaya al potere. In Egitto nei giorni scorsi 118 paesi hanno condannato energicamente il colpo di stato, riaffermando di non essere disposti a riconoscere come legittimo nessun governo se non quello di Zelaya.
La settimana scorsa una delegazione di osservatori internazionali del Guatemala ha pubblicato un rapporto dettagliato che ha documentato e portato alla luce le gravi violazioni perpetrate dall’esercito golpista contro la popolazione.
Intanto il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki Moon ha annunciato ieri di voler contribuire personalmente alla risoluzione della crisi in Honduras, offrendo «collaborazione tecnica per la mediazione» e dichiarando piena disponibilità a riguardo ad Arias.
In Honduras continuano intanto le mobilitazioni a favore di Zelaya, anche se gradualmente meno frequenti. Il governo golpista ha annunciato la sospensione del coprifuoco nel paese a partire da domenica scorsa.
Zelaya conta sull’appoggio di gran parte dei governi della regione. Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha chiesto nei giorni scorsi agli Stati uniti di mettere in atto le azioni necessarie a dimostrare concreto appoggio al presidente deposto. Allo stesso modo i governi di Bolivia e Uruguay hanno diramato una nota nella quale esprimono nuovamente solidarietà a Zelaya e al popolo dell’Honduras.
Il governo di Micheletti ha risposto dichiarando nuovamente che lascerà il potere a gennaio al vincitore delle elezioni politiche previste per l’anno nuovo, aprendo alla possibilità di elezioni anticipate se si troverà un accordo tra i principali partiti politici e le autorità. Ciascuno insomma continua a rimanere sulle proprie posizioni, senza cedere di un passo alla mediazione internazionale. Uno stallo preoccupante e dagli esiti imprevedibili.

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